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Conosci Joe Petrosino? Un eroe della legalità raccontato attraverso i luoghi in cui ha vissuto

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La figura di Joe Petrosino non smette di mai di sorprendere. È appena uscita in Italiano una sua biografia molto documentata e molto ben scritta che vi invito a leggere e dalla quale ho preso spunto per questo nuovo viaggio dove l’immaginazione e il bisogno di usarla in modo creativo è essenziale.

Joe Petrosino un eroe della legalità non a tutti noto

Celebrato come eroe della legalità sia in Italia che in America, Joe Petrosino non è ugualmente noto in tutto il resto del mondo, quando ho avuto il piacere e l’onore di presentare il Museo a lui dedicato nella sua casa natale di Padula al Forum dell’Europeana Association, è stato interessante notare come Joe Petrosino susciti curiosità ed istintiva vicinanza anche per chi non sia coinvolto emotivamente nella costruzione degli Stati Uniti d’America o nella storia del riscatto degli emigrati Italiani.
Durante il forum, i responsabili Wikipedia dei paesi europei presenti, affascinati dalla sua figura, mi facevano notare come si sarebbero attivati da subito per ampliare o creare la voce Petrosino nelle Wikipedia dei loro paesi.

Iniziamo da Padula, casa natale di Joe

Il nostro viaggio parte dall’inizio: da Padula. Tra vicoli dove la luce della valle lascia il posto, all’improvviso, all’ombra delle case costruite addossate le une alle altre come a sostenersi a vicenda. Padula fa venire in mente come l’architettura spontanea possa essere la filosofia di una vita, un posto dove solo la lentezza permette agli occhi di adattarsi e scrutare. Perché Padula è un mosaico fatto di piccoli dettagli che da soli possono essere anche insignificanti, ma cuciti addosso diventano un tessuto solido, avvolgente. Per cucire occorre tempo ed è per questo che Padula è il luogo della lentezza. Occorre camminare e perdersi per il labirinto di quei vicoli dove incontrerete ancora i luoghi ed il tempo di Joe Petrosino. Le stesse strade dove Giuseppe correva insieme agli altri bambini della sua età tra le povere abitazioni civili e i resti di chiese ed affreschi di epoca bizantina che evocano i fasti di una civiltà antichissima.
Joe Petrosino, Padula
Padula, città natale di Joe Petrosino.
Vicoli stretti da cui appaiono aperture improvvise che rompono la solida unità dell’abitato. Sono l’ideale per spingersi l’un l’altro giocando a gettarsi fuori pista nelle corse in discesa verso la valle dove l’incanto della Certosa di San Lorenzo ferma il respiro per la razionalità e la purezza delle sue linee, dove i profumi delle coltivazioni mediterranee si uniscono ai soffritti che evadono dalle cucine e si perdono lungo la strada con la stessa lentezza che impongono al gusto.
Padula, induce l’immaginazione a vedere attraverso gli occhi della mente la forma stessa con la quale la letteratura, il cinema, i racconti su Joe Petrosino hanno costruito la cornice dentro cui vivere il paesaggio che avete di fronte passeggiando. È un modo per entrare nella storia di Joe e farne parte. Il fatto che sia passato del tempo è proprio il gioco a cui il viaggiatore si abitua colmando con l’immaginazione, con la fantasia, con i ricordi, con le letture quello che non c’è più, perché chi viaggia con noi e in questo modo ha occhi diversi da chi non lo fa.

Padula, Il Museo della Legalità, in ricordo di Joe Petrosino

Tra vicoli e belvedere aperti sul paesaggio del vallo di Diano sarete accolti nella casa dove nacque Giuseppe oggi Museo della Legalità. Un filmato vi guiderà attraverso le sale e le schede di approfondimento costruite a partire dai materiali dell’archivio di Rai Teche. Giuseppe Petrosino doveva essere destinato a testimoniare la nascita e la formazione di nuovi stati nazionali, tanto è vero che dopo pochi mesi dalla sua venuta al mondo, quando ancora le cure amorevoli di mamma Giuseppina nutrivano il piccolo attaccandolo al seno, Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II decisero di stringersi la mano non molto lontano da lì sancendo un patto che faceva unita l’Italia, il primo dei nuovi paese in cui Petrosino crescerà. 

Emigranti o emigrati?

Un bambino di Padula, figlio di un sarto emigra all’età di tredici anni e diventa famoso in tutto il mondo senza mai diventare ricco. Emigrare, quando ero piccolo io, era sinonimo di fare fortuna, per noi bambini degli anni ’50 questo era l’imperativo, vedevamo d’estate tornare ben nutriti e ben vestiti quelli che avevano lasciato il paese per bisogno. Oggi non saprei dirvi quanti di quelli fossero davvero diventati ricchi e quanti semplicemente ostentassero il loro benessere nei confronti di chi non aveva avuto il coraggio di imbarcarsi. Passeggiavano nei pomeriggi afosi d’Agosto con dei vestiti improbabili come i loro nuovi nomi. Cappelli di paglia sgargianti e camicie fuori misura per i propri corpi, come se il benessere avesse cancellato di colpo la sobrietà, animali esotici che il paese aveva ribattezzato con il il nome del loro nuovo paese. Non c’era più Antonio o Giovanni, ma l’Americano, il Venezuelano, e per noi bastava a significare “ricco”. 
Dalle mie parti, il participio passato del verbo emigrare non è mai esistito o per lo meno esisteva nella grammatica, ma era completamente fuori uso. Non esistevano emigrati, ma solo “emigranti” segno che l’azione di spostarsi da una nazione all’altra per lavorare non poteva considerarsi mai conclusa, anche dopo anni, dopo generazioni si era emigranti o figli di emigrante; lasciare la propria terra era una cosa temporanea e sempre ancora in atto.
Il participio presente è fatto per sperare, il passato era nascosto anche a se stessi da un futuro che aveva solo il sapore del ritorno. Tra la fine dell’800 ed i primi anni del ‘900 partirono a milioni dal nostro sud e si ammassarono tutti nel Low East End dove le vecchie case di legno venivano abbandonate dagli Americani che cominciavano ad inseguire gli effetti di un sogno industriale. Gli immigrati privi di istruzione, ciechi muti e sordi dall’incapacità di esprimerei nella lingua del paese, finirono per raggrupparsi dando vita a ghetti le cui condizioni sono state descritte nel 1889 da Giuseppe Giacosa, a New York per la prima della Boheme di cui è autore del libretto.
È impossibile dire il fango, il pattume, la lercia sudiceria, l’umidità fetente, l’ingombro, il disordine di quelle strade. La gente ci vive all’aperto, segno, che peggio sono i locali interni. Anche là come in Napoli il cielo è ragnato dalle frequenti distese di panni sciorinati tra l’una casa e l’altra. …..Sul passo degli usci, sui gradini delle scalette, su sgabelli di legno o di paglia nel bel mezzo della via, le donne mettono in mostra tutta quanta la loro compassionevole vita domestica. Allattano, cuciono, mondano le verdure avvizzite, solo condimento della loro minestra, lavano i panni negli unti mastelli, si strigano e ravviano a vicenda i capelli. Ciarlano, ma non fanno il cinguettare allegro ed arguto delle viuzze di Napoli, bensì un non so quale cruccioso pigolìo che stringe il cuore.

Le strade di Joe Petrosino a New York

Quelle erano le strade dove lavorava Joe Petrosino, sergente della polizia di New York in lotta contro la mano nera, ma anche contro il pregiudizio e la paura; si perché per i criminali italiani Joe aveva fatto una cosa da “infame”: si era schierato apertamente contro i suoi stessi connazionali, aveva violato il codice d’onore per il quale non si tradisce il proprio sangue. Per tutti gli altri restava sempre un italiano, un “mangiaspaghetti”, sporco, inaffidabile e bugiardo.
Migranti a Ellis Island 1892
Migranti a Ellis Island 1892
Ma Petrosino stava contribuendo alla costruzione del suo nuovo paese e combatteva proprio in nome e per conto di tutti gli italiani onesti che stavano costruendo il proprio futuro insieme a quello della nuova patria. Amava l’America con l’amore irrazionale dell’immigrato, nessun americano per nascita fu mai patriota più fervente, scrisse Frank Marshall White, riteneva di avere eterno e sconfinato debito di gratitudine nei confronti del suo paese adottivo, per le opportunità che aveva offerto a lui e a molti altri italiani.
Petrosino una volta spiegò ad un giornalista che solo l’istruzione avrebbe estirpato il malaffare: Nei quartieri italiani di New York abbiamo bisogno di un missionario più che di un poliziotto. Un missionario che vada dai nuovi arrivati e spieghi loro come funzionano il governo e le amministrazioni degli Stati Uniti. I miei connazionali non sanno quanto siano fortunati a vivere in questo Paese, ed è questo ad ostacolarli. Sembra che il tempo non sia passato se pensate che nel museo di Padula trovate Antonino Caponnetto, il successore di Rocco Chinnici alla guida del pool antimafia di Palermo, che spiega come la mafia non abbia alcuna paura della polizia e delle giustizia di quanta ne abbia della scuola e della cultura.
Se andate a New York per una vacanza e decidete di seguire quello che la vostra guida turistica vi suggerisce, non mancate di munirvi degli strumenti immaginativi che stiamo per darvi e fare una passeggiata tra le strade che furono la Little Italy di cui oggi non rimane alcuna traccia. Penso che sia giusto così, Little Italy era un ghetto quando gli italiani lottavano per la propria posizione sociale, oggi il ghetto è scomparso perché non ne ci sono più le ragioni per esistere. Non è scomparso però dai libri, dai film, dalle raccolte fotografiche e non è scomparsa la toponomastica che ci permette di ritrovare gli indirizzi e ripercorrerete le strade di Joe.
Little Italy, New York, 1905
Little Italy, New York, 1905
Giuseppe emigra nel 1873 e sbarca a New York quando la statua della libertà non c’era ancora. Qualche anno più tardi l’enorme numero di Italiani giunti in città creano il ghetto che conosciamo come Little Italy. Il cuore pulsante era Mulberry Street, piena di piccole botteghe italiane, negozi di frutta, mercato, rumore e bambini che correvano in strada. Nel Padrino, Francis Ford Coppola ci regala una ricostruzione perfetta di quella strada. Possiamo passeggiare a partire da Canal Street ed immaginare, suoni, rumori, odori di cucina italiana: cipolle, prosciutto, peperoni ed aglio fresco. Lo stesso odore che avete appena sentito nelle vie di Padula se siete lettori attenti. Passeggiate facendovi largo tra la folla ed oltrepassate Houdson Street, la via che Martin Scorzese definì anni dopo il confine al di la del quale era necessario parlare l’inglese. 
Immaginare, proprio di fronte al 300 di Mulberry Street, dove aveva sede il distretto di polizia, un ragazzo con la sua statola da lustrascarpe sul marciapiede, fermatevi ad osservare con quanta lena lucida a specchio le scarpe dei poliziotti irlandesi che entrano ed escono dal distretto, non è difficile. Immaginate Giuseppe, non ancora diventato Joe, ma già in grado di esprimersi in inglese sentirsi deridere ed insultare solo perché Italiano. 
Guinea era l’epiteto che veniva usato per i nostri connazionali comparati al luogo d’origine degli schiavi acquistati e deportati. Su quel marciapiede Joe lavorò e su quel marciapiede un giorno diede un calcio alla scatola ed a tutta la sua attrezzatura da “sciuscià” giurando a se stesso che sarebbe diventato qualcuno. Se avete l’immaginazione che occorre al viaggiatore state attenti, quel calcio ci fu davvero e sparse tutto il lucido da scarpe per strada. State attenti, potreste sporcarvi. 
Pochi passi più indietro, all’angolo tra Lafayette e Spring potreste incontrare la faccia di un molisano, Vincent Saulino che gestiva un ristorante italiano dove Joe, mangiava ogni giorno. Diventare Americani non significava rinunciare al sapore delle melanzane fritte o del concentrato di pomodoro, ma quel ristorante al di la della bravura della signora Saulino come cuoca, aveva un’attrazione in più. Joe si era invaghito della figlia di Vincent: Adelina, che corteggiò per circa dieci anni prima di poter sposare e trasformare due solitudini in una solida famiglia.
Andarono ad abitare pochi passi più in su, al 233 di Lafayette, andateci, non è lontano, vissero in quella casa dal giorno delle nozze fino alla morte di lui. A quello stesso indirizzo arrivo il feretro di Joe il giorno del suo funerale che fermò New York per un giorno, ma non la costruzione dell’America cui aveva contribuito. Il corpo fu atteso sotto la sua casa dalla banda che intonò un requiem. Si racconta che quando la banda cessò di suonare si udirono nettamente i singhiozzi delle donne affacciate alle finestre del suo palazzo, concentrate la vostra immaginazione, nonostante i rumori della strada quel pianto lo potrete sentire ancora.
Joe Petrosino
Joe Petrosino, in una foto dell’epoca
Uno dei vantaggi dell’immaginazione in viaggio è quella di poter tenere insieme personaggi reali e personaggi nati dalla fantasia degli autori. Allora sappiate che proprio negli stessi anni in cui il vestito e la bombetta di Joe Petrosino erano di casa tra le strade di Little Italy, arrivò dalla Sicilia Vito Corleone, quello che nel libro di Puzo e del film di Coppola si chiama “Padrino”. Attenti, il personaggio che la letteratura ha inventato rappresenta insieme tutti i nemici di Joe e può essere più vero di lui. 
Due traverse a destra e arriverete a Mott Street, proprio di fronte alla antica cattedrale di Saint Patrick, dove Joe e Adelina si sposarono il 6 gennaio del 1908, immaginate la cerimonia ed i pochi invitati, gli stessi che pochi mesi dopo parteciparono nella stessa chiesa, al battesimo della loro figlia, Adelina pure lei, il 30 novembre dello stesso anno, pochi mesi prima del tragico assassinio.
Se vi trovaste a visitare una delle culle del multiculturalismo: Palermo, salvate il tempo per ripercorrerete quelle poche centinaia di metri che portarono Joe Petrosino verso la sua tragica fine in piazza Marina. Per ironia della sorte, quella piazza, al tempo dell’inquisizione fu il luogo di esecuzioni capitali, il giorno dell’assassinio di Joe era il centro della Belle Epoque. Tram elettrici che scampanellavano facendo affrettare i passeggeri, signore eleganti in carrozza verso una serata mondana, magari al teatro Biondo dove in quei giorni si esibiva Paule Silver, l’eccentrica francese, una occasione unica per sfoggiare il nuova abito di sartoria. Erano le 21 circa e sentirete ancora i rumori di un’epoca buia e lussureggiante. Scendete dalle scale della intendenza, lì un tempo c’era l’Hotel de France dove Joe alloggiava e percorrete la strada fino allo slargo di fronte alla fontana del Garaffo. Nel 1909 c’era il caffè Oreto dove Petrosino cenò subito prima dei suoi ultimi passi lungo la cancellata del giardino Garibaldi fermati per sempre da quattro colpi di pistola sparati a bruciapelo, da distanza ravvicinata.
Fu la sua ultima lotta, contro chi tutelava i criminali in Italia e in America, contro l’insabbiamento sistematico che dava a questi banditi la certezza che i leader politici avevano il potere di proteggerli, contro il male in ogni sua forma. Fermatevi all’angolo dove Joe Petrosino cadde, a poca distanza dalla chiesa di santa Maria dei Miracoli. Sembra, dalle indagini accertato, che molti loschi figuri che secondo i documenti sarebbero dovuti essere altrove e addirittura in America furono visti aggirarsi da quelle parti quella sera. Se a piazza marina andate all’imbrunire e vi concentrate sulla nostra storia li potete vedere distintamente anche voi. Dopo il delitto, la mano pietosa di uno scalpellino incise delle croci sul basamento che circonda il giardino proprio nel punto in cui Joe cadde al suolo, per ironia della sorte, quando il basamento fu smontato per un restauro i blocchi non furono numerati, ed al momento di rimontarli quel segno di ricordo e di pietà finì spostato da un’altra parte lungo il perimetro del giardino.

Joe Petrosino, il libro

In tutto questo resta solo da presentarvi il libro che ha ispirato queste pagine. Si tratta di una biografia estremamente accurata e ricca di fonti di prima mano, ma contemporaneamente un racconto emozionante che, anche se dedicato a Joe ed alla mano nera, racconta sullo sfondo il più grande esperimento sociale che mai il genere umano abbia compiuto: la nascita di una democrazia che ha messo insieme l’intero mondo conosciuto dando a tutti la spinta per diventare altro. L’autore usa la parola “nemesi” proprio per indicare quanto quelle persone avessero il bisogno di una rappresentazione ideale della giustizia, della personificazione di un ideale. Una divinità classica che come nella Grecia di Platone o nella Roma di Augusto fu l’aspirazione verso cui esorcizzare le angherie e le preoccupazioni della vita.
La mano nera, la vera storia di Joe Petrosino
Il libro: Stephen Talty “La Mano Nera: La vera storia di Joe Petrosino” Dea Planeta Editore 2017
In questo senso Petrosino non esce dal libro come un eroe ed è questa la caratteristica più bella del libro, ma semplicemente come l’anticorpo generato da un sistema immunitario che sta costruendo la sua protezione dagli agenti esterni. Questa è stata l’America di quegli anni, molto lavoro e tanta immaginazione, contraddizioni resistenze ed errori come in tutte le gradi democrazie. Impariamo dalla grande letteratura, è un modo per fare sempre meno errori in futuro.
Aldo Di Russo
Aldo Di Russo – www.aldodirusso.it
 


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