Il Marocco, Fes e tutte le altre Città Imperiali non sono un itinerario per dormienti. Bisogna osservare e ascoltare quello che arriva dalla strada e dal deserto, mangiare lentamente il cibo che racconta la povertà di una terra e restare muti di fronte ai muli che trasportano imballi di mattoni pesanti, cercare di accettare la grande distanza tra occidentalità e metodi arabi.
Un viaggio di pancia e di riflessione.
La ricchezza di un viaggio sta nel mezzo. Il Marocco è una specie di cammino mistico e attraversarlo significa addentrarsi nelle cicatrici di questa terra, nel suo ventre bucolico, abbracciare una madre indegna e in alcuni momenti perversa; sfidare il deserto e poi abbandonarsi all’oasi, perdersi nei souk e poi ritrovarsi nei villaggi, tra i pescatori e poi tra gli incantatori di serpenti.
Dall’alba al tramonto si assiste a uno stratificarsi di ambre, ori, violacee mattinate, incandescenti orizzonti.
Poi arrivi a Fes.
La guardi dall’alto di una collina dirimpettaia, e rimani pietrificato dalla globalità del suo costruito, non ci sono spazi tra un abitato e l’altro, appare come possono apparire i presepi in creta, un blocco di case e casupole in cui ti chiedi se è possibile vivere o se, invece, dietro le facciate si nascondano appartamenti lussuosi e tappeti volanti.
Una volta davanti alla Porta della Medina di Fes, non ho più ritrovato la stessa città vista dall’alto, grandiosa e artistica. Lì, in quelle vie ossute, ombreggiate da stuoie e cannucciati, da tettoie improvvisate, da drappi sfilacciati, mi sono persa dietro il mio stesso naso.
Fes è un sinuoso ed enigmatico centro storico che va spogliato, che deve essere aperto come si aprirebbe il vaso di Pandora e che non è permesso lasciarsela passare sotto i piedi con sufficienza solo per distrazione: si perderebbe il senso e il significato della storia di un popolo. Si tralascerebbe la sua immensa umanità. I volti pazzeschi che meritano di essere ritratti da un pittore o da un fotografo, quella luce polverosa che disegna linee pulviscolari; e le spezie, coni di spezie di cui mi immaginavo i sapori solo perché il colore corallo di una, o quello verde elettrico di un’altra, erano prepotentemente attori di un marciapiede.
Si tralascerebbero i suoi odori. Di carni macellate su cui si annidavano le mosche; di frutta lucida che ho visto solo nei cartoni animati; delle capanne di Shebbakia, piccoli dolci, come bugie o stracci, cosparsi di miele ed accatastati l’uno sull’altro, presi d’assalto da nubi ronzanti di api.
Si tralascerebbero i colori. Quei monili d’argento e quelle babbucce manufatte che rivestono intermittenti i lunghi muri esterni dei negozi. Quelle donne fasciate da abiti neri, funeree fino agli occhi, fino, cioè, a quell’unico spiraglio che invece ci rivela una bellezza ancestrale e sguardi famelici; quegli uomini scarni, il cui spirito prevale sulla fisicità, quindi forti, impudenti ma con occhi da diavoli.
Tutta questa stravaganza nel Souk mi ha intossicato lo sguardo ma non lo spirito.
Quando sono uscita, il sole brillava alto, ho avuto bisogno di due minuti per riabituarmi a tanta luce.
Poi ci sono stati altri Souk nel corso del viaggio ma nessuno era Fes.
La Medina di Fes ha qualcosa di straordinario: di intoccabile e allo stesso tempo, talmente è vivace, di necessariamente palpabile. Ho sempre avuto il desiderio di toccare ogni spezia, volto, gatto ozioso o piede sporco di terra.
L’atmosfera antica di questa Città Imperiale non passa inosservata, anzi, è disseminata prepotentemente lungo le vie strette e lambisce ogni forma o figura che incontra con una tale drammaticità che sembra quasi essere il risultato di un’iniezione di luce custodita nei secoli e rigeneratasi autonomamente per essere tramandata agli eredi universali. O a noi, semplici visitatori.
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