Cari lettori,
durante un viaggio in treno con il Direttore Sodano abbiamo avuto l’idea di creare per MOONDO delle pagine di viaggio che possano essere viatico tanto per chi le scrive quanto per chi avesse voglia di leggerle fino alla fine (una metodologia di recensione dei libri di viaggi). Viaticum, in epoca romana, rappresentava tutto il necessario da portare con se per affrontare la strada: il sacco, lo chiamavamo da bambini quando gli zainetti non c’erano ancora. Ma il necessario non è solo materia, è fatto di idee, quindi di libri, di ricordi, di apprensioni e di ansia, la stessa che Eugenio Montale descrive nei suoi versi prima del viaggio. Io il viaggio che sto per descrivervi l’ho fatto con la mia fantasia ritornando lì dove sono stato molti anni fa, per raccontare solo cose effettivamente avvenute, che sono certo, sono avvenute a molte persone come me. Lo stesso si può applicare quindi a tutto quello che riguarda il tema, ma ciascun articolo potrebbe non finire mai se ci aggiungo altri ricordi o meglio ancora altre immagini. Chi si dovesse riconoscere, potrebbe aiutarmi, tramite queste stesse pagine, a riempire l’album di figurine di cui propongo solo un inizio…
Formia tra immagini e ricordi, un racconto in divenire
Ho davanti un libro di vedute di Formia: disegni, gouaches, acquerelli, che vanno, più o meno, dal ‘400 all’Unità d’Italia e non immaginavo che un libro di antiche vedute facesse così bene alla fantasia ed al viaggio. Mi ritengo sufficientemente razionale dall’essere vaccinato contro il facile entusiasmo nei confronti del tempo che fu. Non basta la semplice vista bucolica di un golfo incantato di sole e di mare, di piccoli promontori coltivati ad aranci che tendono le braccia verso la culla della cultura Greco Romana, in quelle pagine non trovate indicazioni sulla mortalità infantile, sulla denutrizione, sulle malattie e sulla vita media della popolazione, dati che disegnano la nostra epoca come quella di conquiste inimmaginabili per l’uomo che popolava i paesaggi incantati della Arcadia nostrana. Fatto sta che proprio la nostra immensa capacità di aver trasformato techne e logos per saper dominare la natura rende la perduta bellezza ancora più colpevole e idiota. Come dire: ma che avete studiato a fare così tanto se un borgo che prende linfa dal mare è oggi da questo diviso da una strada litoranea simbolo di scempio e di bruttezza?
Sfoglio il libro. Ogni pagina una favola fatta di colori, di gesti, di persone che lentamente comincio a riconoscere e di cui comincio a ricordare il nome. Ogni veduta del golfo, ogni punto di vista permette alla mia mente di giocare con le prime sensazioni forti che in quel posto sono nate. Sfogliare un libro di immagini ormai trapassate significa dare un senso al presente, basta metterci dentro le pennellate che la fantasia ha lasciato intatte da allora. Non vedo solo quello che c’è, ma riconosco quello che il pittore non avrebbe mai potuto dipingere: la mia scuola elementare, la barca di legno dove ho imparato a remare e le cose recondite che non ho mai potuto confessare. Le pagine invisibili di un libro che è insieme viaggio, storia dell’arte, antropologia, sociologia e filosofia. Si, perché tutte le etichette cadono intorno alla centralità di un uomo.
Formia: la pesca
Così una sera, proprio al centro di una delle insenature di quel golfo, ero seduto davanti ad una sbiadita televisione in bianco e nero, panciuta come una donna gravida che mensilmente necessita di un controllo medico alla selva di valvole che disegnano la foresta di vetro da dove nascono i programmi della sera. In quella televisione, qualcuno decise di cantare una canzone siciliana che raccontava la triste storia di un pesce spada. A prima vista poteva essere la storia di una battuta di pesca. A Formia, quella mia e quella delle vedute del libro, pescare era una cosa quotidiana, vitale, una consuetudine, ma quella volta, e per la prima volta, Domenico Modugno, così si chiamava il cantastorie, raccontò la storia di un pesce e non quella di un uomo. La vita raccontata dalla preda, una punto di vista insolito, no?
La storia. Qualcuno avvista il pesce spada dalla barca incita l’equipaggio all’attacco lu vitti, lu vitti! Pigghia la fiocina! Ma l’azione successiva, quella rappresentata dal verbo, non era pescalo, piglialo, fallo abboccare, come dicevamo noi bambini buttando la lenza a mare nel porto, ma un verbo innominabile, con il quale si raccontava il male: quello da fuggire, denunciare, esorcizzare, combattere, quello dei racconti di guerra degli anziani. Accídilu, accídilu, aahaaà! ……. Così lanciò la fiocina, il pescatore, come il mestiere gli aveva insegnato trafiggendo in un sol colpo il cuore del pesce spada, una fimminedda …. ca chiancia di duluri! E trafiggendo, senza sporcarsi le mani, anche il cuore del suo innamorato che continuava a seguire la barca ignorando le suppliche di lei a salvarsi fuggendo lontano.
Tutto successe in una notte, in una di quelle insenature di fronte a quel mare, i versi di quella struggente ballata diventarono immagini indelebili della mia vita. Tempus fugit ed ora che sono un anziano lettore confuso tra la bellezza delle pagine di questo libro e i ricordi di un molti anni, voglio avere il privilegio della sincerità. Quello che un bambino non può permettersi. Lui sta diventando uomo, non confesserà mai di aver pianto di nascosto e di aver elaborato con rabbia la sua vendetta contro la società affermato dal giorno dopo in modo categorico e per il resto della sua vita: Il pesce spada non mi piace.
Formia: il cinema
Nelle vedute di Formia del libro non potevano esserci i cinema. Si riconoscono però perfettamente i luoghi dove poi li avrebbero costruiti per me e per la mia generazione. Ce n’erano quattro d’estate e due d’inverno, e vi confesso che, per chi come me ci ha passato molto tempo e ci ha imbastito molti sogni, a guardare le vedute del golfo fa venire in mente che i cinema altro non avrebbero potuto costruirli che dove li hanno fatti: al centro di un sogno. Non vi intratterrò su questa o quella pellicola, tema, storia, ma solo su alcuni effetti collaterali che quei luoghi hanno avuto sulla fantasia, sulla immaginazione e sulla capacità di astrazione della mia generazione.
Forse non ci avete mai pensato essendo, come siete, abituati ad andare al cinema, ma in un piccolo centro adagiato sulla regina viarum alla fine degli anni 50 è il cinema che viene da voi. Funziona così. Per tutta la settimana ci si chiedeva quale film avrebbero proiettato, si sperava, si aspettava, non c’era altro modo per vedere un film che aspettare che fosse lui a venire a trovarvi. Si viveva così.
Al cinema si arrivava ad una certa ora del pomeriggio quando ci fossero due condizioni: la prima era aver finito di fare i compiti, la seconda aver rimediato i soldi necessari per quel sogno settimanale. Tutto questo non avveniva quasi mai in coincidenza con l’inizio dello spettacolo, si entrava e basta. Ci si metteva comodi e ci si concentrava. Lo sforzo era destinato a ricostruire, nel più breve tempo possibile, memorizzando frasi, azioni, frammenti, ciò che fosse l’antefatto rispetto al nostro arrivo fino ad ottenere un aggancio completo tra la nostra mente e quella di chi avesse concepito il racconto. Era una vera e proprio procedura di sintonizzazione, un processo mentale, lento e fatto di aggiustamenti continui, era questione di attimi, di precisione e di incastri. Proprio come trovare una stazione radio imparando a maneggiare con leggerezza e sapienza la manopola dell’apparecchio di casa, solo che al cinema la procedura era solo mentale. Forse è per questo che quelle generazioni sono riuscite, applicando lo stesso metodo, a fare incontrare perfettamente orbite, atterraggi, in appuntamenti siderei perfetti. Secondo me si erano addestrati al cinema, perché al cinema ci si abituava alla vita. La vita è fatta proprio così. Una volta venuti al mondo non comincia la vita, ma solo la tua, e così ti devi organizzare, agganciare la storia cercare le ragioni del prima, le possibilità del presente che sono razionalmente incastonate negli accadimenti quotidiani. L’esistenza migliora quanto più velocemente si riesce a fare questa operazione che noi, bambini, facevamo come esercizio settimanale.
Così il cinema non fu solo un grande luogo di incanto e di sogno, ma una palestra di pensiero astratto. Si usciva solo quando si fosse stati soddisfatti, ogni spettacolo un nuovo punto fermo. La scuola ci ha molto aiutato in questo, ci ha dato gli strumenti attraverso i quali le nostre azioni di sintonia ed i nostri viaggi con la fantasia sono stati possibili. Li imparavamo a scuola, ma li utilizzavamo al di fuori. Ricordo che d’estate, quando l’ultimo spettacolo era appena cominciato, le locandine del film venivano sostituite con quelle del giorno dopo. Noi andavamo a prendere da terra le vecchie, dalle quali, una volta a casa, ritagliavamo le immagini degli attori, i cavalli, i fortini, per costruire le nostre storie, in modo che la palestra fosse sempre aperta ed in funzione.
Formia: la TV
Se i cinema erano due, uno solo era il canale televisivo. Il pericolo di una vita isolata era scongiurato dal fatto che di fronte alla televisione si stava con l’intero condominio che si portava le sedie da casa per vedere questa fenomenale tecnologia. Avevo un compagno alle elementari che mi raccontava che la nonna pretendeva di riordinare la cucina e pulire tutto perfettamente prima dell’inizio delle trasmissioni serali convinta che la Nicoletta Orsomando nell’atto di annunciare i programmi potesse avere lo sguardo fisso vigile ed attento sulla sua abilità di padrona di casa. A ciascuno la propria dignità!
Formia di notte
All’improvviso una veduta notturna. Fino a quel punto del libro solo i colori sgargianti del nostro sole e della tarantella, ora l’azzurro di una notte di luna piena. Forse non era lo stesso giorno, ma la luce si. Dalla finestra verso il mare cercavo di capire se fosse possibile scorgere Gagarin e la sua navicella in orbita intorno alla terra. Non ero stupido da pensare di poterlo vedere a quella distanza, ma avevo una teoria: in un mondo che a me sembrava immobile, se avessi visto un corpo muoversi percorrendo tutto l’arco del cielo quello sarebbe stato lui. Perciò mi munii di un piccolo binocolo di plastica acquistato sulle bancarelle il giorno della festa del santo patrono e cominciai la mia esplorazione celeste. La luce era proprio la stessa della veduta che ho di fronte sulla pagina di questo libro, segno che, dall’unità d’Italia a oggi, almeno qualcosa fosse rimasto invariato. Guardavo la luna come ET avrebbe guardato la sua casa qualche anno dopo. Complice quella sera fu mio padre che credo si stesse chiedendo come la fame, gli sfollati e le macerie, avessero potuto produrre quella notte lì in una spanna di anni. Non ci avevo più pensato prima di aprire il libro, ricordo distintamente che chiesi se un giorno saremmo potuti atterrare sulla luna. La sua risposta fu: sono sicuro di si, io non ci sarò più, ma tu vedrai un uomo sbarcare sulla luna. Ho trascritto questa risposta perché capiate una cosa, le competenze astrofisiche e tecnologiche di mio padre erano pressoché nulle, ma quello era l’entusiasmo dei sopravvissuti all’orrore, non so quando, dicevano, ma ce la faremo. Peccato che quell’entusiasmo non fosse diffuso al punto da non riuscire ad impedire il saccheggio edilizio e la violenza su di una città di cui restano solo vedute e ricordi.
Formia: ricordi
Il libro si chiude con un gruppo di pescatori che tirano le reti mentre altri armano la barca per la loro uscita notturna, ricordi? Forse, ma non è vero che i ricordi sono solo aria: sono storia, sono emozioni che si trasmettono e che si rivivono. Io stesso non avrei mai immaginato che un volume di vedute antiche trascinasse la mia voglia di riprender il treno e tornare dove sono nate le mie corde, dove le ho accordate agli altri per cominciare a suonare. Certo, la vita mi ha dato tanto, ho girato il mondo, ho avuto la fortuna di lavorare con grandi artisti, ma mi rendo conto di avere lo stesso stato d’animo che prese l’anonimo migrante della ben nota poesia Napoletana che temeva di trovare le macerie di guerra dove un tempo c’era stata la sua giovinezza. Forse esagero, la guerra non c’è stata e tutto potrebbe essere più facile, Ma ch’aggi”a fá?…Mme fa paura ‘e ce turná!
Se hai ricordi, storie, immagini da aggiungere a questo racconto scrivi a info@cudriec.com
Il Libro: Formia: Retrospettive iconografica da incisioni, disegni, acquarelli, gouaches e olii – Caramanica Editore 2007 – Renato Marchese Filippo D’Urgolo.