Non è come camminare su un set e non è come camminare fuori da un set, Ouarzazate è sul filo, un po’ Marocco, un po’ America.
da pubblicare il 3 Gennaio
Porta di Ouarzazate – PhotoCredit: Emanuela Gizzi
Dietro, le Gole del Dades. Davanti, Ouarzazate, la rinomata Porta del Deserto.
Dalla traduzione quanto mai fascinosa e che lascia spazio all’immaginazione -Ouarzazate, infatti, vuol dire Far Rumore-, ci si aspetta un fragoroso mondo marocchino amplificato.
Invece, la sensazione che ho, entrando, non rispecchia la caratterizzazione del nome. Anzi, per un attimo, il sole si fa distante e le pelli ruvide, bruciate dal caldo, assumono tratti duri, quasi il viaggio mi si stesse congelando tra le dita.
I tappeti all’ingresso mi sembrano l’unica vera nota marocchina, forse per il loro modo, muto eppure importante, di starsene appesi e dare colore, nel loro modo di accogliere. Così rossi, così vissuti.
Ci sono molti uomini in giro e non hanno molta voglia di salutare, anzi, qualcuno, come spesso mi è capitato durante questo viaggio in Marocco, alzano la mano come a fermare le fotografie che gli scatto.
L’Atlas
Mi trovo di fronte alla Kasbah, una costruzione interessantissima, eppure così finta, molto distante dal Marocco visitato finora, dove più che il paesaggio in sé, i luoghi erano stati rappresentativi di un’identità viscerale.
Questa rocca fortificata, anzi, mi piace dire “traforata” -perché scavata di nicchie, di feritoie, di motivi romboidali-, come ogni altra Kasbah, aveva il compito di proteggere la città e quindi era la residenza ufficiale dei Caid berberi, gli amministratori della guerra locale.
Nel corso degli anni divenne, insieme a tutta la cittadina e ai mila ettari di deserto intorno, il più grande tra gli Studios di film-making al mondo, il famoso Altlas.
Nel prossimo articolo ancora Ouarzazate e L’Atlas
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