Agadir è un piccolo gioiello, il blu si riflette un po’ su tutto mentre l’Antica Talborjt nasconde la sepoltura comune di 18.000 persone
I moti di una città
Camminando qui, proprio a ridosso del molo di Agadir dove l’Oceano sciacquetta le barche ormeggiate, sembra di non aver lasciato il porto di Essaouira. Si somigliano, così romantiche e piene di vita, affollate di pescatori, profumate di salsedine e pesce fresco.
Eppure, questa parte, è la meno frequentata: la cittadina, infatti, è molto legata all’attività proficua dei tantissimi stabilimenti balneari che, grazie a spiagge di sabbia e tratti di mare pulitissimo, sottraggono l’attenzione a quelle che, in altri contesti, sarebbero le reali attrattive.
Basti pensare che Agadir è stata interamente ricostruita dopo il terremoto del 1960 e che quando si cammina, ad esempio, sull’Ancienne Talborjt, un’area erbosa che occupa il terreno sottostante le rovine della Kasbah, si sta camminando su 18.000 corpi, vittime della tremenda distruzione, i quali, non potendo essere estrapolati dalle macerie, furono sepolti lì, in una specie di fossa comune.
Seguendo il suono di una conchiglia
Questa mezzaluna del Marocco è davvero incredibile, la storia cupa l’avvolge ma sembra non risentirne affatto. La vita è tutta rivolta al mare. E a renderla preziosa sono le sue imbarcazioni. Non solo le barchette blu, che tanto mi hanno ipnotizzata, ma anche i pescherecci, solitamente vecchi e piuttosto vissuti, spesso sporchi, qui somigliano a dei capolavori, attrezzatissimi e ordinati.
Una in particolare mi colpisce, ha tutti quei colori che non ti aspetti, quell’inclinazione che agevola lo sguardo, e mentre la osservo, la fotografo, la studio, si materializza nel suo enorme corpo di balena il senso del vagabondare, della libertà e anche del lavoro, tre momenti della vita che di solito non stanno insieme.
Mi fa piacere girare senza una meta, solo seguendo la banchina. Incontro a un certo punto un nuovo nugolo di pescatori, sono lì che sistemano reti, si occupano del pescato, lo trasportano su un carretto corroso dalla ruggine, e fanno delle ricche mangiate, non saprei dire a base di cosa.
Un momento, di forte concitazione e di condivisione del cibo, durante il quale parlano tra loro rocambolescamente, senza badare troppo alle maniere o a masticare. Mi arrivano tutti i riccioli e le sbavature della loro lingua, le risate sonore, quel modo ansioso che hanno di confrontarsi, come se dovessero litigare da un momento all’altro.
Mi guardano, non passo inosservata. Il porto di Agadir non è affollatissimo. E forse, qualcuno, vorrebbe che io non scattassi foto ma non mi dicono nulla, se ne stanno impietriti, indisposti, qualcuno più o meno indispettito di altri.
Raccolgo una piccola conchiglia e ascolto se il mare sale fino alle orecchie. A dire la verità non sento nessuna onda, nessuna sirena o mollusco gridare, ma lo stridere dei gabbiani sì, affollano la banchina e sembrano abituati alle persone, mi camminano davanti e qualcuno mi segue. Sembra di far parte di loro adesso, e non più dei pescatori.
Della stessa autrice: