Era un po’ di tempo che avevo intenzione di fare un viaggio in Sardegna e respirare a pieni polmoni il profumo delle erbe mediterranee e della storia di quella civiltà. Sono i profumi e gli odori emanati dalle tradizioni, dai riti, dagli antichi dei, che sanno di invasioni, conquiste, rivolte, tradimenti, ed aprono nuovi orizzonti di libertà. Contraddizioni, si, le stesse che scavano le rughe sui volti degli uomini e che fanno diventare vita la vita che hai vissuto. Così ci sono andato.
Sono arrivato a Cagliari proprio mentre Cristoforo Colombo sbarcava nelle Americhe e ci sono rimasto per poco meno di un secolo, fino alla battaglia di Lepanto, il più inutile spargimento di sangue che il mondo abbia conosciuto. Già, ma a quei tempi era difficile rendersene conto, quello che contava era solo poter mostrare la propria supremazia sugli altri usando gesta clamorose come segnali politici, i morti non avevano alcun valore.
Il processo alle locuste, personificazione di Satana
A Cagliari ho trovato un fervore inaspettato, di Cristoforo Colombo nessuno sapeva nulla e nulla avrebbero saputo per lungo tempo. Quel fervore era attaccato ad una novità, poter assistere ad un processo intentato contro le locuste che infestavano i raccolti dell’isola generando fame e disperazione tra i contadini (ma questo poco importava) e facendo incamerare un po’ meno proventi ai latifondi governanti. Il primo processo del genere. Non sono pazzo! Non vi prendo in giro! Era proprio così! Ma come? Si può processare un animale? Si può, ed i gesuiti lo fecero davvero durante la dominazione spagnola, convinti com’erano che la locusta fosse, e solo questo poteva essere, la personificazione di satana. Lui solo sarebbe stato in grado di assumere mentite sembianze per danneggiare il legittimo governo voluto da Dio.
Vi confesso che all’inizio ero inorridito, ho pensato: ma che storia è questa? Non sto vivendo in un romanzo scritto sulla Storia, ma in una favola immaginata senza alcun riferimento alla realtà, poi mi sono reso conto che non era così, origliando i discorsi della gente in piazza e carpendo le loro parole mi sono convinto: era tutto vero e le locuste andavano processate per il bene di tutti.
Andavano di fretta, senza guardarsi intorno, sfuggenti, nessuno si è accorto di me per fortuna. Forse scappavano da qualcosa correndo tra le strette viuzze del Castello intorno al palazzo del viceré. Smarriti come me e come sarete voi leggendo le prime pagine del libro che vi sto per suggerire. Avrete la sensazione, dopo poco, di essere senza meta. Abbiate pazienza, credetemi, questo l’autore lo aveva messo in conto, serve proprio a sintonizzare il lettore con lo scoramento dei personaggi.
Coscienze sporche
Ho visto donne fuggire per non essere violentate, uomini insensibili al dolore e generosi col potere. Ho visto un uomo immobile in fondo al pozzo, riflettere e cercare soluzioni, perché una soluzione c’è, e si trova sempre, anche in quella scomoda posizione. Ho visto tutto questo mentre continuavo ad inseguire i personaggi tra le ripide scale di pietra, vicoli stretti ed improvvise aperture verso il cielo che l’autore ha creato attraverso una scrittura sincopata, che traccia “a schizzo” i caratteri, con pochi tratti di penna, descrivendoli attraverso frammenti di pensieri interrotti, proprio per sottolineare il loro continuo correre per il castello e per la città di sotto, quella dei poveri, senza una vera ragione ed una vera meta, quasi assistessero inermi ad una invasione di mediocrità civile e culturale di cui la locusta, alla fine, è solo la rappresentazione letteraria e metaforica. Ho visto processare un insetto, cosa che non era venuta in mente nemmeno a Kafka, ho visto coscienze sporche pensare di lavarsi usando il male attribuito agli altri come sapone.
Facciamo un test: 1492 – 2018
Il libro è molto coinvolgente tanto che sentirete davvero il tanfo delle locuste morte e in putrefazione chiuse nel cesto sul banco degli imputati, che si aggiunge al disgusto per i comportamenti disumani di alcuni dei personaggi che incontrerete. Succedeva nel 1492, oggi sarebbe impossibile, alle locuste figlie di satana non crederebbe nessuno, è evidente. Sicuro? Facciamo un test: 1492 – 2018. Se credete che gli stranieri siano il 27 per cento della popolazione italiana e non il 7 come dice l’ISTAT, se siete convinti che lo “ius soli” faccia diventare italiani tutti quelli che sbarcano e non solo quelli che sono nati qui, che qui hanno studiato e che a volte parlano solo la nostra lingua perché figli di chi è già da tempo regolarizzato, se credete che il nostro problema più grande siano gli immigrati e non, ad esempio, il debito pubblico, l’ignoranza e l’inadeguatezza delle classi dirigenti, se vedendo un uomo di colore in treno pensate subito: “questo non ha il biglietto”, allora siete dalla parte degli spagnoli che istruirono le udienze del processo. Leggete il primo dei libri che vi suggerisco questa settimana per visitare Cagliari, poi leggete il giornale di oggi, scoprirete che di processi alle locuste se ne fanno ancora.
Eresie ed eretici
Per portarvi nella seconda storia bisogna aspettare più di mezzo secolo, nello stesso posto, tra la porta del leone e quella dell’elefante, guardando dall’alto le vele che incrociano al largo di una terra così ambita come lo è il poter stare “al centro” da cui si può dominare il mondo. Il tribunale della santa inquisizione imperava ancora, in città ed anche nella madrepatria spagnola. Imperava con sentenze di morte, riduceva in cenere gli eretici.
Eretico è una parola che significava opposizione alla verità, mancanza di ortodossia, pensiero scomodo, insomma, avete visto mai una di quelle scene nei film di spionaggio in cui per evitare che un documento possa essere utilizzato contro una tesi che si sta costruendo ad hoc lo si butta nel camino? Bene, loro lo facevano con gli uomini.
Alcuni di quei condannati, consapevoli della loro buona fede, per ciascun giorno della loro detenzione hanno pensato al domani e a tutti i modi per convincere i giudici della propria non colpevolezza. Così fece anche Sigismondo Arquer, dotto magistrato cagliaritano quando fu imprigionato a Toledo. Da magistrato aveva fatto arrestare chiunque potesse inquinare la vita di una città ormai potente porto del mediterraneo, era coraggioso, onesto, era un vero sardo, circondato dalla sua stessa dignità come la Sardegna lo è dal mare. Forse aveva fatto arrestare un uomo di troppo. Un omicidio per un magistrato è un reato indipendentemente da chi lo commette. Non sapeva, o non poteva immaginare, che a quei tempi la licenza di uccidere per chi fosse potente ed amico dei potenti era già stata inventata. Così fu arrestato e processato senza essere una locusta.
Voleva solo uscire da quell’incubo, Sigismondo Arquer, solo a questo pensava, fino a pochi giorni prima della sua esecuzione, quando, all’improvviso, colpito da un ricordo arrivato insieme ad un alito di vento, iniziò a pensare al passato, a riavvolgere il nastro della propria vita che sta per finire. Si pensa al passato quando il futuro ti lascia solo di fronte ad un rogo in una piazza di Toledo e tu sei nato ed hai respirato l’aria tersa dal vento dell’antica acropoli di Cagliari. “Nessuno ti toglie i ricordi anche se ti possono togliere il futuro” dice Sigismondo ai suoi lettori e li trascina a guardare le facciate dei palazzi del Castello dal basso, mentre si sale per le ripide ascese o per le scale, dove si ha subito la sensazione che queste siano “appese” come panni di bucato esposti al sole, ad asciugare, per essere poi indossati di nuovo puliti ed asciutti. Il Castello di Cagliari è una ricomposizione architettonica che sembra uno scavo a cielo aperto in cui si riconoscono gli stili e le usanze di chiunque sia passato di lì compresi i segni che l’ultima guerra ha inflitto. È magico il castello, ve lo dico io che cagliaritano non sono, basta avvicinarsi al bordo esterno del borgo per vedere riprodotta in piccolo l’idea di isola. Il cielo si incontra col mare a ribadire che l’oltre non esiste.
Ovunque panni stesi, di ogni forma e di ogni colore, come bandiere tra i vicoli, connessioni dirette tra gruppi sociali attivi. Una rete prima della rete, da una casa all’altra, da una finestra all’altra, disegnando schemi di convivenza e di condivisione senza le leggi scritte. Sono belli da vedere, sono gli antenati dei link, sono network con una forte importa di utilità sociale. Dopo aver letto questo secondo libro che vi suggerisco, ho immaginato, che quei panni potessero essere lo schermo su cui proiettare tutti i pensieri ed i ricordi di Sigismondo.
L’eterna storia degli intellettuali e del potere
Il suo autore non era molto lontano da me. Passeggiando l’ho incontrato, si chiamava Giulio Angioni. Un uomo colto, posato, dalle lunghe pause che lasciavano chiaramente intendere che la frase successiva sarebbe stata filtrata attraverso i secoli che si dimenavano all’interno della sua testa. Ostinato nel voler esistere attraverso le storie che aveva già raccontato o che ancora giravano la sua mente senza trovare l’uscita. L’aspetto esteriore non era quello di un possente vulcano, ma dalla sua conversazione uscivano come lava spunti che sarebbero rimasti nella mia testa, a giocare con i miei pensieri ed a cambiarne il corso molte volte. Mi sono sorpreso nel vedere come il suo volto scavato e modellato dal vento, dalla storia dell’uomo fosse come le pietre della sua Sardegna.
Così mi venne una idea. Proporre di lasciarsi andare nelle mani di un altro che si era, intanto, innamorato della sua storia e di come l’avesse raccontata,. Si, perché nel conversare con lui ho percepito che l’amore per la sua terra che Sigismondo Arquer elargisce nel romanzo è in realtà quello del suo autore. Giulio ha romanzato una storia vera senza nemmeno modificare i nomi dei personaggi che ci presenta, tutto è storicamente accaduto, vero, suo è, però, il tessuto che avvolge ed inquadra i fatti in una dimensione politica universale. La storia di Arquer e della inquisizione è l’eterna storia degli intellettuali e del potere.
Un autore non è mai completamente il personaggio che racconta perché pezzi di sé sono in ogni pagina che scrive, ma l’idea che Giulio portasse i segni di Sigismondo non riusciva ad abbandonarmi. Così ho pensato di proporgli un’eresia certi, questa volta, di non essere inquisiti: fare l’attore per me interpretando se stesso.
Il ruolo prevedeva uno scrittore nato e cresciuto in quei vicoli che racconta le sue esperienze formative ed il suo rapporto, anche infantile, con il rione, con il mare aperto, col tempo remoto, con la Storia recente, infuso delle stesse diversità culturali che Giulio racchiudeva in sé e che coniugava sempre all’indicativo perché erano le sue certezze. Era una sfida ed un gioco per entrambi: “provare a riconoscere quei luoghi come fosse la prima volta, ritrovare il “genius” la ninfa, il dio a cui devi badare come responsabile di ogni cosa. Nulla altro che questo, una descrizione personale filtrata del più antico e nobile rione di Cagliari visto e raccontato da occhi non imparziali.
I posteri leggeranno il mio amore diceva Arquer, ignaro che quelle pietre che avevano forgiato il suo carattere, quattro secoli più tardi avrebbero scolpito quello di un intellettuale che avrebbe ripercorso i suoi stessi passi riportandolo in vita da Toledo a Cagliari. “Sulla diversità del mondo avevo avuto modo di riflettere, mi ha detto Giulio quel giorno, e come vedi bastano queste nostre differenze Europee a muovere la meraviglia per come il mondo è vario”. Si stava convincendo. Forse stavo per vincere la sua proverbiale ritrosia a stare davanti ad una macchina da presa.
Giulio si sarebbe dovuto armare di pazienza e di fiducia, visto che avrei usato come alter ego alla sua storia personale proprio quella di Sigismondo Arquer reinterpretando liberamente le parole del suo libro ed affidandole ad un bravo attore sardo con il quale stavo collaborando in quel periodo: Gianluca Medas. Un momento di dialogo e di contrappunto, una sponda verso un nuovo racconto per creare negli spettatori la sensazione di un limbo sospeso a metà tra la prosa dell’autore e l’autobiografia che è nel suo romanzo.
La nostalgia per l’isola che Arquer sente in punto di morte è fatta dell’aroma di sale e di sole, del sentore di lentischi e di elicriso, dei luoghi dove si “vorrebbe andare a vivere anche eremiti e da cui si può essere banditi”. Eravamo pronti per la sfida che Giulio accetta di vivere per un giorno con me. Andammo in alto, sugli spalti della rocca, dove si andava a “vedere più chiaro, come da bambini quando giocano a guardare il più lontano possibile, mentre la sera un alito umido sale dal golfo e il firmamento si adorna mano a mano di stelle. Fu da lì che lui rivide se stesso.
Avevamo imparato a volare, eravamo ormai capaci di “allungare il sogno nella veglia fino alla cima del campanile” confondendo e confondendosi, proprio come come fa Dominga, uno dei suoi personaggi quando dice: “anche noi potremmo dire: si so volare. Ho sempre saputo volare, E’ forse peccato volare?” Chi l’ha detto che non abbiamo ali, non si vedono, ma ci sono, ciascuno ne ha un paio e a volte non lo sa. Così provammo a guardare dall’alto il punto più alto di Cagliari
Costruimmo insieme un breve racconto per immagini per mostrare ciò che a volte è invisibile agli occhi, ma non alla immaginazione. Ricostruire un mondo rimescolando i frammenti rubati alla realtà per fermarsi a metà strada tra un collage e il cinema. Immagini di un tessuto che potesse avvolgere i personaggi e non solo fargli da sfondo. Nessun visitatore incontrerà uno di quei luoghi, ma potrà riconoscerli se farà attenzione, nulla di questo è ritratto nelle cartoline e nei documentari turistici, la nostra idea fu di portare i visitatori in un luogo irreale, ma vero dentro il quale è possibile muoversi tra palazzi che si esauriscono nella sola facciata diventando schermi per le parole di un libro che diventava immagine in un improvviso labirinto di vicoli di cui due attori in uno sono il genius loci
Lo stesso abbiamo fatto nella Cattedrale, che ospita una moltitudine di personaggi scolpiti sia sugli altari sia ai lati, santi in atteggiamento estatico o grandi di Spagna in abito nobiliare e posa altezzosa, me li sono immaginati come volti dei personaggi del libro. Visti dal punto di vista per il quale sono stati scolpiti, gli occhi di quelle statue a volte guardano fisso negli occhi chi si avvicini, a volte volgono lo sguardo altrove, scansano la possibilità di essere oggi giudicati a loro volta dai posteri. Sono sguardi di pietra, sono l’impronta della dominazione spagnola sull’isola e sul rione.
Alla fine ci siamo messi al lavoro ed è nato Lampadas un breve filmato che vi propongo e che è stato completato dal pianoforte di Romeo Scaccia, che ha interpretato le sequenze una ad una leggendo e rileggendo il testo e costruendo la sua storia fatta di musica dentro la nostra fatta di aria e di luce. Lampadas prende il nome dal mese in cui Sigismondo Arquer è stato giustiziato. Si, perché in sardo Giugno si dice Lampadas, per via del solstizio d’estate, per i fuochi di San Giovanni e forse anche per quel fuoco che ha portato Arquer a diventare il romanzo che vi suggerisco di leggere per visitare Cagliari.
I Libri:
Sergio Atzeni, Apologo del giudice bandito, Sellerio
Giulio Angioni, Le fiamme di Toledo, Sellerio
Lampadas lo potete vedere qui
Aldo Di Russo – www.aldodirusso.it
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