Nulla è servito al Ponte Rotto per rimanere ancorato alle rive del Tevere, nemmeno la passerella metallica, ultima grande prova di coraggio
Il ponte co-rrotto dall’acqua
Ha cambiato tanti nomi il Ponte Rotto di Roma, da Ponte Emilio a Massimo da Ponte di Santa Maria a Senatorium e dal 241 a.C. al 1700 è crollato tante volte e altrettante è stato ricostruito.
Una sciagura o, più semplicemente, un tratto di fiume ostile. In effetti il Tevere, in questa ansa aumenta il suo defluire, diventando in periodi di alluvione molto selvaggio, suo malgrado.
Ma è la presenza dell’Isola Tiberina a creare tanta disarmonia. Rubando spazio alle acque, queste, in confluenza del restringimento si accalcano fino a ad arrivare più violente addosso al ponte che segue, oggi il Palatino, più saldo e costruito con un’angolatura diversa, un tempo il Ponte Emilio, una struttura in balìa degli eventi.
L’ultimo dei tanti rifacimenti, di cui si legge nota nell’iscrizione datata 1575, fu quello ordinato da Papa Gregorio XIII Boncompagni, con il quale, si provvide al totale restauro dell’opera e all’inclusione della conduttura dell’Acqua Felice, che doveva rifornire la Fontana di Piazza Santa Maria in Trastevere.
Ma il Tevere, dopo venticinque anni dal riassestamento del Ponte, all’epoca era ancora il Senatorium, di nuovo si abbatté sulle sue assi oblique fino a spezzarlo.
Per qualche tempo, ancorato solo a una riva, divenne un giardino pensile dove i romani presero a passeggiare, forse attratti dalla novità, forse dispiaciuti di vederlo morire. Ma l’oscillare dell’arco portò i cittadini a dichiararlo inagibile e quindi a condannarlo all’abbandono.
Sospeso nel tempo
Fu solo nel 1853 che l’ingegnere Lanciani valutandone la fattibilità ancorò di nuovo l’ormai rudere alle due rive per mezzo di una passerella metallica sorretta da funi. Un grande rimaneggiamento che, però, circa trent’anni dopo decadde per l’evolversi della società e l’esigenza di avere un ponte carrabile.
Si provvide, così, alla rimozione dell’impalcatura creata e alla costruzione di un nuovo ponte adiacente, il Palatino, che avrebbe sostituito il vecchio Senatorium decretandone così anche l’ultimo nome, per lui, rimasto: Ponte Rotto.
Sono Nino Manfredi e Gino Pernice a rimetterci piede nel 1966 sul set del film “Adulterio all’Italiana” durante il quale i due attori, rispettivamente nei panni di Franco e Roberto passeggiano sul Ponte Rotto, animati da una conversazione nevrotica, da un’agitazione di fondo, che culmina con l’arrivo della moglie di Roberto, Marta, impersonata da Catherine Spaak, dalla quale i due sono rocambolescamente soggiogati. Cercano di distanziarsi da lei per evitare il confronto e a quel punto il Ponte fa la sua parte, rotto com’è, non può che mancargli da sotto i piedi e trascinarli in acqua.
E poi il resto è lì, di fronte all’Isola Tiberina tra il Lungotevere degli Alberteschi e il Lungotevere Aventino, un corpo senza braccia, immobile nella sua disfatta ma non del suo valore, fotografato, amato, ancora riconosciuto nel tessuto urbano di una città che ne ha viste di tutti i colori.
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