A spasso per le vie di Roma fino all’inferno di Auschwitz per non dimenticare
A spasso per le vie di Roma fino all’inferno di Auschwitz per non dimenticare
La riflessione di questa settimana serve a prolungare la giornata della memoria. Nessun ritardo, signori, primo perché per noi di Moondo, la difesa della dignità dell’uomo come all’articolo 3 della Costituzione, è attività quotidiana, secondo perché i temi che sono venuti a galla quel giorno della scorsa settimana richiedono riflessione e ponderazione.
Non sono temi storici chiusi in un passato, sono temi quotidiani che vivono nelle cronache e nei rischi di reiterazione.
Giornata della memoria: ricordare è attività quotidiana
Non facciamoci illusioni, sui diritti inalienabili la guardia della democrazia non si abbassa mai. Proprio mentre sto per inviare lo scritto al direttore, leggo che un bambino di 8 anni, francese di religione ebraica, è stato aggredito alla periferia di Parigi. La Polizia non ha dubbi sul fatto che si tratti di una aggressione antisemita.
La giornata della memoria è anche il giorno per leggere un libro in più, guardare un film che non avete visto e poi pensarci su; pensare a quello che significa oggi, pensare a quella memoria per costruire un futuro.
Molti sono gli artisti che hanno messo in scena la rappresentazione di quei fatti e continuano a farlo, serve a riflettere, meditare ancora sul come e sul perché Dio abbia voluto mettere l’umanità a così dura prova o semplicemente: “sia morto” come recitava una canzone della mia giovinezza. Quel giorno una cerimonia intensa si è svolta al Quirinale e si è conclusa con un discorso del Presidente Mattarella che spero sia diffuso, letto e commentato in ogni scuola, famiglia e luogo di lavoro di questa Repubblica perché ha raggiunto una intensità, una altezza morale e un significato istituzionale da dare a quel giorno una spinta in più. Anche grazie a questo, siamo qui la settimana dopo.
A spasso per le vie di Roma fino all’inferno di Auschwitz
Come al solito ho preso a pretesto un libro che ci condurrà a spasso per le vie di Roma fino all’inferno di Auschwitz, ci condurrà tra i vicoli stretti dell’animo umano, le strade della malvagità e le curve improvvise della solidarietà. Si, perché il racconto che dà voce alla storia di Alberto Sed è un racconto di vita e di casualità, di ingiustificato orrore che serve però a farci riconoscere l’afflato vitale di ogni gesto disinteressato e istintivo. Arrestato a Roma tredicenne insieme alla sua famiglia: sua madre, tre sorelle di cui una piccola, Alberto Sed fu deportato ad Auschwitz nel consueto carro bestiame e subì l’inverosimile, l’inenarrabile, a cui, nel libro, una voce fuori campo permette di diventare letteratura e quindi testimonianza di verità.
Ci sono continui test di umanità ai quali il lettore sarà sottoposto all’improvviso. Non abbiate timore di asciugarvi le lacrime che vi impediranno di continuare a leggere, a me è successo, sono la testimonianza della vostra sanità di mente e del vostro amor proprio. Il libro consentirà di essere chiuso solo dopo l’ultima pagina, anche se la trama è chiara fin dalla prima, è talmente emotiva e coinvolgente la scrittura da farsi leggere in un sol fiato.
Il Presidente Mattarella ha chiaramente ricordato come agli internati venissero negati il nome, il diritto stesso ad essere persone. Per poterli uccidere a freddo, senza remore, occorre prima convincersi che non appartengano al genere umano, che possano non esistere. Soltanto per effetto di questa insana distorsione essi possono essere trasformati da persone, in freddi elenchi, numeri, quelli tatuati sul braccio, catalogati e registrati dalla macchina lugubre e solerte degli apparati di sterminio di massa, sostenuta da una complessa organizzazione che estendeva i suoi gangli nella società tedesca.
Una macchina lugubre così organizzata per lo sterminio che, le storie dei deportati si somigliano tutte: stesse sofferenze, stessi racconti, stesso orrore…Tutte le vittime dell’odio sono uguali e meritano uguale rispetto – ha detto il Presidente – Ma la Shoah, per la sua micidiale combinazione di delirio razzista, volontà di sterminio, pianificazione burocratica, efficienza criminale – resta unica nella storia d’Europa.
Primo Levi, nel suo “Se questo è un uomo”, il più famoso dei racconti letterari che hanno portato di fronte al grande pubblico la tragedia dell’olocausto nella dimensione di ciascun singolo individuo, si chiede se sia ancora uomo colui che soffre e lotta per un pezzo di pane secco, nel tentativo di sostenersi, non cadere in terra e quindi essere eliminato. Nella storia raccontata da Alberto Sed troviamo una risposta: “Umiliati e marchiati non abbiamo mai smesso di essere uomini”. Ma non basta, il libro rovescia il punto di vista e afferma che forse, a non essere uomini erano proprio quelli che stavano dall’altra parte negando i sentimenti di umanità e di coscienza. Non poteva essere considerato uomo chi per gioco, per passatempo, aizzò i cani contro una delle sue sorelle costringendo l’altra, inerme, a guardare la scena fino a che la piccola non fosse sbranata. Perchè? Perché era domenica e occorreva cercare un diversivo alla noia. Forse a non essere più uomini furono coloro che da dietro una divisa si divertirono a far annegare un sacerdote greco spingendolo con gli stivali nella piccola piscina del campo, forse, a non essere uomini era chi faceva tiro a segno sui neonati lanciati in aria scommettendo pochi marchi sul fare centro.
Che fine aveva fatto – si chiede il Presidente Mattarella – tra gli ufficiali di un esercito prestigioso, dalle grandi tradizioni, il senso dell’onore, quello per cui, quanto meno, non si uccidono gli inermi? Dove era finito il sentimento più elementare di umanità e di pietà di una nazione, evoluta e sviluppata, di fronte alle moltitudini di innocenti avviati, con zelo e nella generale indifferenza, verso le camere a gas?
Levi e Sed, così uguali, così diversi
Forse la differenza di risposte tra Levi e Sed la si deve anche al tempo in cui le due storie sono state scritte. Levi la scrisse all’indomani della liberazione come bisogno di raccontare, Sed si decise solo pochi anni fa sotto la spinta di una “rivincita”, come la chiama lui: la fotografia della sua numerosa famiglia riunita il giorno delle sue nozze d’oro. Cinquantacinque anni di distanza tra i due libri, significano potersi allontanare dall’evento tanto da riuscire ad osservare l’insieme annotando i dettagli. Sono importanti le date nella nostra storia, Levi pubblica per la prima volta il suo libro, non senza difficoltà, nel 1947, nel 1958 Einaudi lo distribuisce decretandone il successo. In quegli anni io cominciavo ad andare a scuola e la parola Auschwitz significava orrore anche per noi bambini. Nello stesso anno iniziano in Germania le indagini che porteranno nel 1962 al primo processo nei confronti degli uomini delle SS che, dopo aver operato nei campi di sterminio, erano tornati alla loro vita civile come nulla fosse con la complicità di un paese che aveva paura di sapere e che nulla seppe fino al 1965 quando il processo fini. (Ricordiamo che il primo processo di Norimberga, 1945, fu istruito dagli alleati e non dalla Germania.) Furono molti, troppi, gli anni del silenzio che hanno rischiato di sbiadire le tinte forti con cui gli eventi sono avvenuti.
Chi non ha dimenticato e ci aiuta a ricordare è Gunter Deming, un artista tedesco che dal 1995 inserisce nel tessuto urbano delle città le sue “pietre d’inciampo”, dei quadrati di ottone che portano inciso il nome e la data della deportazione di un uomo o di una donna che abitavano al civico dinanzi al quale la pietra è posta. Roma è costellata di pietre d’inciampo, andateci, le trovate intorno al Portico D’Ottavia ed al Rione Monti dove le retate sono state più intense. Il protagonista della nostra storia abitava in Via Sant’angelo in Pescheria al numero 28. Non fu arrestato lì, ma la pietra d’inciampo che trovate di fronte casa e che ho fotografato per voi, riguarda un altro Sed, Angelo, arrestato il 1 aprile del 1944 e mai tornato. Ucciso negli stessi luoghi dalla stessa ideologia e dagli stessi uomini in divisa, numeri anche loro, ma senza il tatuaggio sul braccio.
Esiste un nemico invisibile ed ancora pericoloso, l’indifferenza contro cui il protagonista della nostra storia ha combattuto e continua a combattere anche oggi, libero tra gli affetti della sua numerosa e affiatata famiglia. Contro questo nemico bisogna vigilare tutti ed ogni giorno.
Ma dai! Sono solo ragazzini! Così qualcuno gli disse quando indignato lasciò lo stadio Olimpico durante l’incontro Roma Livorno, aveva visto con i suoi occhi uno striscione che diceva “Lazio Livorno, stessa iniziale stesso forno”. Succedeva nel 2006 e da allora Alberto Sed non mise più piede allo stadio. Mai avrebbe potuto immaginare, allora, che le scritte “romanista ebreo” o “romanista Aronne Piperno”, si riferivano ad un ebreo personaggio del Marchese del Grillo di Mario Monicelli, si sarebbero trascinate avanti fino ad ingiuriare quella che fu l’immagine simbolo dei nostri anni ’60: Anna Frank. L’episodio ha scandalizzato il mondo intero meno che gli autori i quali si sono detti “stupiti dal clamore; era solo goliardia”. Non si tratta di Roma o di Lazio, di Juve o di Napoli, si tratta di rendersi conto come ci sia in strada, a piede libero, ancora qualcuno che considera: la parola “forno”, “ebreo”, “Anna Frank” essere insulti. “Anche allora cominciò tutto così”, pensò Alberto uscendo per sempre dalla sua amata curva sud. Non si tratta di ragazzate o goliardia, nel migliore dei casi si tratta della colpevole ignoranza nei conforti della storia recente, indifferenza per le infanzie rubate, quella di Anna Frank, quella del nostro protagonista, ignoranza e indifferenza per lo stesso percorso di reazione e di lotta a queste ideologie diventato poi il fondamento della Repubblica dove noi viviamo e dove quelle squadre di calcio possono giocare.
Gli autori di questi oltraggi razzisti sono stati individuati e denunciati, ma questo non ci deve tranquillizzare. La cornice democratica della nostra Repubblica ha stabilito delle leggi oltre le quali c’è il reato e, come ogni stato democratico, si è anche dotata di strutture militari preposte ad investigare e denunciare tali reati. Il problema è che non si può fare attività militare contro la coscienza, le convinzioni ed i pregiudizi, l’ignoranza della storia e delle istituzioni, quando queste sono radicate, occorre agire sulla cultura civile diffusa e condivisa. Quando ero ragazzo, i miei lettori sono ormai abituati alle mie divagazioni negli anni ’60, a fare educazione civica ci pensava la famiglia, la scuola, la chiesa e il partito (qualunque fosse) se questi pilastri vacillano, la cultura di un paese è in pericolo e alcune storture vengono a galla.
Una soleggiata domenica del 1933
Adesso facciamo insieme un esercizio. Provate a visualizzare con me la scena che ho appena immaginato per gioco, una scena che non è mai avvenuta, ma sarebbe potuta verosimilmente accadere. In una soleggiata domenica del 1933, il 5 di marzo per la precisione, in un caffè tra il Pergamon Museum e Frederick Strasse, a Berlino, Kurt Wail e Fritz Lang si erano dati appuntamento preoccupati per la salute del loro amico Bertold Brecht che era ricoverato in ospedale. A loro si unì quel giorno Samuel Bechet che aveva lasciato l’insegnamento ed aveva affrontato un viaggio di studio in Europa in cerca di ispirazione. Fritz era eccitato, il sonoro apriva al suo cinema una dimensione ancora inesplorata e cercava di ottenere l’aiuto prezioso di Kurt che aveva da poco composto “L’opera da tre soldi”. Discutevano di come la loro arte avrebbe potuto influenzare il mondo. Nessuno pensava che effettivamente ciò sarebbe avvenuto, che il mondo li avrebbe ricordati per sempre. Intorno a loro, una domenica elettorale come tante: famiglie con bambini a passeggio, qualcuno con in mano i dolci della festa pronti per un pranzo in famiglia.
Una domenica normale quel 5 di marzo, a pochi passi dal meglio dell’arte europea, i cittadini tedeschi stavano dando, col voto, la cancelleria ad Adolf Hitler. Quegli artisti riuscirono ad emigrare e lasciarono al mondo la loro visione, resta il fatto che la tragedia nacque proprio intorno alla culla dell’arte e della bellezza. Quello che sarebbe potuto essere l’emblema della civiltà diventò lo strumento di cieca barbarie.
Un virus letale, dice il Presidente Mattarella, era esploso al centro dell’Europa, contagiando nazioni e popoli fino a pochi anni prima emblema della civiltà, del progresso, dell’arte. Auschwitz era il frutto più emblematico di questa perversione.
All’improvviso ed in modo inaspettato cambiò la vita della famiglia Sed. I nazisti avevano chiesto l’oro alla comunità ebraica e la comunità aveva pagato, avevano convocato i capofamiglia per controlli e si erano presentati al comando spontaneamente. Partivano convinti che avrebbero lavorato per i nuovi occupanti, e sono andati inconsapevoli verso l’orrore.
Le leggi razziali …rappresentano un capitolo buio, una macchia indelebile, una pagina infamante della nostra storia. … Con la normativa sulla razza si rivela al massimo grado il carattere disumano del regime fascista e si manifesta il distacco definitivo della monarchia dai valori del Risorgimento e dello Statuto liberale. ….Dopo aver soppresso i partiti, ridotto al silenzio gli oppositori e sottomesso la stampa, svuotato ogni ordinamento dagli elementi di democrazia, il Fascismo mostrava ulteriormente il suo volto.
Bella ciao
Tra le cose strane che sono successe nel giorno della memoria appena passato ce n’è una che merita alcune righe di chiarificazione. In una scuola elementare di Roma è stato impedito che gli alunni intonassero “Bella Ciao”, a richiederlo sono stati alcuni genitori che considerano la canzone troppo schierata politicamente rispetto alla visione dei fatti della occupazione nazista dopo l’8 settembre. Senza alcuna vena polemica né nei conforti dei genitori poco informati, né dei dirigenti scolastici che hanno apposto il divieto vorrei chiarire il mio pensiero. “Bella Ciao” diventò l’inno della guerra di liberazione solo dopo la fine della guerra stessa. L’Italia Repubblicana, di cui quello di Mameli è l’inno ufficiale ancora non esisteva. “Bella Ciao” fu la canzone popolare che unì un esercito di cui fecero parte tutte le formazioni politiche che lottavano contro il nazifascismo, fu anche la canzone dei militari del disciolto esercito che aderirono, fedeli al loro giuramento, alla lotta per la liberazione della propria patria. Sono quella parte dell’esercito che riuscì a sfuggire alle deportazioni e che si aggiunge agli 800 mila internati nei lager che hanno rifiutato di combattere di fianco ai tedeschi preferendo la prigionia al tradimento. Il testo non parla di “bandiere rosse” o di “vento dell’est”, come altre canzoni popolari fanno, ma “dell’invasore trovato in casa” da combattere in nome della libertà, parla della bellezza che sfioriva nell’adolescenza rubata dall’orrore. Un bel fiore sorge anche dalle ceneri di una sepoltura quando si cade in battaglia, quel fiore ha permesso a noi di vivere da liberi in un paese moderno ed avanzato. Se in anni passati qualcuno ha tentato di impadronirsi di “Bella ciao”, facendone un inno di parte, allora ha sbagliato, occorrere imparare e insegnare che da quella canzone, simbolo della guerra di liberazione è nata la nostra Costituzione e la Repubblica in cui viviamo. “Bella ciao” la cantava Berlinguer e Benigno Zaccagnini, è l’inno di chiunque abbia combattuto per la libertà e la Repubblica, dire che corrisponde a una visione di parte è pura ignoranza storica o peggio nasconde una falsa idea di pluralismo.
E qui veniamo ad una seconda considerazione. Il pluralismo in una democrazia non significa che se dico una cosa devo dare voce anche alle opinioni contrarie, perché questo non ha nulla a che vedere con la democrazia stessa. Se intervisto un sopravvissuto di Auschwitz non ho alcun motivo di sentire il parere di un ex ufficiale delle SS. Non esiste par condicio tra un aggredito ed un aggressore. La conquista di una democrazia è una cornice di valori e di norme all’interno della quale si muovono le opinioni di tutti quelli che quelle norme hanno accettato e condiviso. Gli altri sono fuori. Questa è la nostra democrazia, nata da quella guerra, nata dalla resistenza, nata dall’antifascismo.
Nel 1981 Enzo Biagi intervistò il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, vincitore della guerra contro il terrorismo interno. A lui chiese a bruciapelo, da consumato giornalista, di elencare i fatti che avessero contato di più nella sua vita. Il generale non ebbe dubbi e citò per primo, di quando, ufficiale dell’Arma, nel contesto della resistenza, si trovo alla testa di tanti patrioti e responsabile di intere popolazioni. Questo fu l’antifascismo, non una guerra di parte, ma una battaglia che ci appartiene, che è di tutti, che è bene comune. Nessuna considerazione che io possa fare in proposito potrà essere precisa e fondata come le parole che Il Presidente della Repubblica ha pronunziato nel suo discorso commemorativo della giornata della memoria:
Sorprende sentir dire, ancora oggi, da qualche parte, che il Fascismo ebbe alcuni meriti, ma fece due gravi errori: le leggi razziali e l’entrata in guerra. Si tratta di un’affermazione gravemente sbagliata e inaccettabile, da respingere con determinazione. Perché razzismo e guerra non furono deviazioni o episodi rispetto al suo modo di pensare, ma diretta e inevitabile conseguenza. Volontà di dominio e di conquista, esaltazione della violenza, retorica bellicistica, sopraffazione e autoritarismo, supremazia razziale, intervento in guerra contro uno schieramento che sembrava prossimo alla sconfitta, furono diverse facce dello stesso prisma.
Un lungo elenco di nomi senza volto
Nell’ultima parte del libro che vi invito a leggere, l’autore esce allo scoperto, dopo aver prestato la voce ad Alberto ci regala un lungo elenco di nomi senza volto; se fosse la sceneggiatura di un film diremmo “gli alleati del protagonista”, quelli che gli hanno consentito involontariamente di essere tra noi. Quelli che hanno trasformato la morte in vita, quelli che hanno risposto con amore disinteressato alla indifferenza omicida. Sono loro i fili della storia stessa che condensati in una passerella finale prendono gli applausi del pubblico dei lettori. Francesca, Erminia, Sisino, Il medico Francese, Antonio, Virginia, Giovanni, che quando si trovò in un momento di difficoltà economica non volle essere aiutato perché la sua coscienza gli impediva di accettare denaro in cambio di un gesto d’amore. Quell’amore ha ucciso l’odio, forse è quell’amore che ha generato le ragioni della nostra vittoria finale. Sono loro gli uomini senza volto di cui parla la storiografia moderna, mattoni della Storia spesso dimenticati. Questo libro ce li ricorda tutti, ebrei, cattolici, atei, biondi, bruni, alti, bassi, del nord, del sud, persone strette intorno alla ricostruzione di un paese che aveva bisogno di un futuro guardando agli errori del passato senza mai cancellarli.
Libri come questo ci ricordano che ciò che è accaduto può accadere di nuovo, la loro lettura è un antidoto all’indifferenza, un inno alla dignità, alla storia, alla cultura di un paese che ha saputo rialzarsi come Alberto Sed. La felicità non è un telefonino, dice l’autore, È vivere la bontà, aiutare il prossimo. Ogni cosa che abbiamo è un dono straordinario, ogni giorno che viviamo è un giorno in più. Già la normalità, la tranquillità, dovrebbero renderci felici. Una cosa l’autore del libro non poteva sapere quando lo ha scritto, che nonostante i milioni di morti una sopravvissuta di Auschwitz sarebbe diventata senatore a vita. Non c’è alcun dubbio, abbiamo vinto noi.
Il Libro: Roberto Riccardi Sono stato un numero: Alberto Sed racconta, Giuntina editore Firenze 2009
Il discorso del Presidente Matterella è a disposizione in testo ed in video sul sito del Quirinale
La mappa romana delle pietre d’inciampo è consultabile a questo indirizzo, clicca qui
Esistono mappe per molte città italiane ed Europee.