La rotta carovaniera, dall'alto - PhotoCredit: Emanuela Gizzi
In cima ad Ait Ben Haddou non ho la stessa percezione provata sulle Gole del Dades, non è il dito a toccare il cielo ma il cielo a toccare la mia testa. Come un cappello più grande e azzurrato.
Come un’analogia spirituale, si materializza di fianco a me un uomo. Non c’è più la donna con la bambina con le quali avevo condiviso quel tratto di Marocco, ma un uomo simpatico della Ksar. Mi sorride, anche lui, come quella donna. Spontaneo. Non si copre il viso quando gli indico la macchina fotografica. Si lascia rubare l’anima. Per la prima volta da quando ho iniziato il mio viaggio in Marocco.
Sorride e s’intimidisce. Si mette e toglie il cappello, si guarda le mani rugose. Mi fa vedere un anello d’oro. Forse vuole dirmi di essere sposato. Chissà. Io gli faccio vedere la collana di mia nonna, sembriamo comprenderci o qualcosa del genere.
Sopra di noi si muove un mormorio di nuvole bianche, trasparenti poi pannose. Ci soffiano addosso e si vanno ad annidare sopra il deserto. Si divertono e corrono, così libere.
Guardiamo insieme l’antico tracciato della rotta carovaniera, gli strati di sabbia che mutano, le trasparenze del cielo. L’ansa vuota del fiume. Kasbah Tebi quasi velata.
Gli dico “è bellissimo” ma lui non capisce l’italiano, però mi sorride ancora e, come se invece avesse compreso, indica il paesaggio di polvere, io allora annuisco.
Di nuovo questa bellezza invadente prende il sopravvento sui nostri reciproci confini, appartenenze, colore di pelle. Io così chiara, lui così olivastro. Io così turista, lui così padrone di casa.
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