L’accampamento spunta dal nulla, coloratissimo. I tendaggi che lo rivestono sono ricamati e molto vissuti. Ci sono almeno sette Tuareg ad attenderci. Salutano e sorridono gentilmente al nuovo gruppo. Siamo nel cuore del deserto di Erg Chebbi, uno dei più estesi del Sahara.
Sullo sfondo, in un attimo, il tramonto assale d’arancio e poi di rosso la sabbia e se pure avrei voluto godermi di più questo conflitto tra la terra e il cielo, sfumature notturne oscurano di netto ogni profilo di duna o di dromedario, inghiottendo tutto. Mi sento nel vuoto cosmico. Guardo su, le stelle mi entrano negli occhi riempiendo lo spazio lasciato dal Sahara e dalla luce andatasi dissolvendo.
Sono nel nulla, lo percepisco, rabbrividisco, poi è come entrare in un mondo spensierato, soffice, quasi senza atmosfera.
I Tuareg iniziano a cucinare per noi, ci servono pietanze buonissime, molto semplici e poi suonano per noi, ci invitano a danzare.
Io mi allontano, a un certo punto, richiamata dall’oscurità fuori dall’accampamento. Non saprei dire cosa mi attraesse. Faccio pochi passi pensando di ritrovare l’entrata, invece non un filo di luce trapela dalle tende in grado di condurmi indietro, né una torcia tra le mani. Perdo totalmente l’orientamento. E, in questo momento preciso, un’onda calda di vento mi assale, intrappolandomi nel corpo violento del deserto. I capelli li sento scompigliarsi come se un campo magnetico li stesse tirando da una parte e dall’altra, impazzito. Non riesco più a respirare e il panico mi aggredisce più del vento. Non so quanti secondi passano, non sento niente, solo la morsa della sabbia nelle narici. Il corpo del Sahara che mi volteggia intorno.
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Poi mentre penso di stare per svenire mi sento sollevare di peso e portare qualche metro, forse passo, più in là, in una sorta di tunnel astratto dove la tempesta di sabbia non passa. Avverto che da quel punto ci muoviamo verso un altro punto e poi un altro ancora, le direzioni diverse mi destabilizzano ancora di più. Le braccia che mi sollevano sono di un uomo forte e alto. Mi parla in inglese e si muove come un felino.
Passo molti interminabili minuti tra le braccia di questo sconosciuto poi, a un certo punto, mi rimette in terra e, nell’oscurità, deve scostare il tendaggio, perché vengo investita dalle luci dell’accampamento.
Lo guardo quasi col pianto in gola, tossisco di quell’impasto di sabbia che avevo respirato e lui, il Tuareg, ricambia il mio sguardo. Resto a fissarlo per pochi secondi, ha pupille come carbone, riesco a dire solo “grazie”, ipnotizzata dai suoi occhi. Mi sorride con quel fascino che lo precede. Lo abbraccio priva di parole, un gesto a volte è più significativo, quello lo era in modo assoluto. Se non si fosse accorto che ero uscita, probabilmente, non starei qui a raccontarla.
Mi infilo nel sacco a pelo, gli occhi spalancati tutta la notte, per l’adrenalina ma anche per quelle stelle, così tante, così cosmiche da non permettermi di evitarle. Un cielo mai visto prima. Vivo l’alba come un parto.
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