Dopo Fes e Rabat la stravagante e popolosa Medina di Meknes prende il sopravvento. Soprattutto nei vicoli ciechi, laddove di solito la luce del sole non penetra. Nei vicoli le sfumature rosee e i gialli predominanti dei muri, a un certo punto, evaporano dentro l’aria, colpiti da una luce allo zenith.
I maghrebini, ognuno dedito al proprio lavoro, alla propria vita, sia in condizione di povertà che schiacciati dal peso di un enorme cesto sulla testa, appaiono irradiati, le pelli levigate, i vestiti pastello, gli occhi di vetro.
Si nascondono da me, dagli obiettivi che possono ritrarli. Mi guardano dal milionesimo angolo del milionesimo vicolo e poi scompaiono come se la luce che li aveva resi eterei alla fine li sgretolasse in pulviscolo.
In Marocco dicono di non volersi far rubare l’anima e io lo trovo molto poetico, tuttavia, proprio questa stessa poesia mi porta a voler raccontare le espressioni dei visi, le pelli di creta, gli sguardi ipnotici, il mondo che si nasconde dietro tanta polverosa clandestinità.
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La porta Bab el Monsour è sicuramente l’ingresso più autorevole di questa città, il suo simbolo più grandioso, un’opera dalle ricche rifiniture. Tuttavia non sono da meno le porte all’interno della Medina che, essendo costruite con il recupero di materiali saccheggiati dal sito archeologico di Volubilis, richiamano alle stravaganze spagnole e arabe. Per un attimo si ha la sensazione di essere altrove, non in Marocco.
In sé Meknes ha un fascino legato ai bagni turchi, a questo odore di tè speziato che si diffonde anche lungo le stradine e a un senso di benessere comune. Lo stesso si può dire alloggiando in uno dei suoi ryad: si ha la percezione di vivere in un limbo, tutto ruota intorno a un cortile centrale, le stanze sia al piano terra che al primo piano. Stanze arabesche il cui stile intarsiato, perfetto, fa desiderare una stanza così perfetta anche a Roma.
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