Di Moulay Idriss ho tre diverse sensazioni. La prima è di stupore. Dall’alto sembra un gioiello incastonato tra il mare, le rocce e il nulla. Non a caso, forse, i tetti più grandi hanno il colore dello smeraldo e sono circondati da una glassa bianca di case come una ghiera. La seconda è di smarrimento. Internamente somiglia a un labirinto, è una città contorta, veloce, sale e scende, fa impazzire, poi diventa improvvisamente una strada larga dove sembra, scorra tutta la vita di un popolo. La terza è di rimpianto. Improvvisamente il silenzio dei vicoli viene aggredito dal rumore del traffico, dalle voci, dagli occhi dei muli, chiassosi, il dorso tristemente carico.
I locali sono sudici, affollati di mosche e, i marocchini che cucinano, non rispettano alcuna regola sanitaria. Sorrido pensando a tutti i nostri divieti.
Una graticola che fuma, attira la mia attenzione, più per le fotografie di persone esposte sul bancone che per gli spiedi di salsiccia. Mi appoggio in una saletta come quella di un bar, il rumore chiassoso del televisore si confonde con quello delle mosche. Alle pareti solo alcuni poster di cantanti, strappate.
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Tavoli e sedie compaiono all’istante, così mi siedo e nel ronzio generale, provocato anche da qualche ventilatore acceso, mangio, osservando i poster e chiedendomi se può esistere un posto più surreale di questo. L’uomo che cucina in strada è felice, ha un gran sorriso. Eppure ha una magrezza che mi fa soffermare sulle sue mani, sulle guance, sulla vita. Per un po’ resto assorta a pensare a quel mondo tanto diverso. Alla fame.
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Volubilis, è a pochi chilometri da Moulay Idriss, respira appieno della sua posizione aperta, dentro un paesaggio profondo, inarrivabile. I resti romani, la basilica, l’acquedotto, le terme sono sullo sfondo, si stagliano nette come delle silhouettes. Il sole alle spalle gioca in loro favore. Non visito il sito archeologico, il caldo mi fa desistere.
Rimango accampata su una delle sedie poste fuori da una baracca adibita a punto ristoro. Io, la macchina fotografica e una simpatica iguana che, di tanto in tanto, mi guarda fissa. Si è come pietrificata sullo schienale e se ne sta lì, a guardare anche lei le silhouettes cambiare di colore.
Io e un’iguana sedute al tavolino di un bar improbabile, e lei, l’iguana, compiaciuta che io la fotografi. Assume pose diverse. Colloquiamo così. Poi il tramonto ci brucia. E io riparto.
Riprendo il viaggio verso dune farinose, strade che corrono solitarie, villaggi operosi e brulicanti di commercio, pugni di case remote, sporcizia e lusso, sabbie bianco cenere, di nuovo strade solitarie, tribù nomadi, dune nere.
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