Spesso una città la si vive e la si capisce appieno l’ultimo giorno, quando anche l’isola più remota ti si è svelata davanti agli occhi. Il giorno che mi sono accorta di Barcellona era anche l’ultimo prima di lasciare la Spagna: l’ho vista solo andando verso il porto e poi lungo il mare, camminando a piedi verso nord, oltrepassando le spiagge, oltrepassando i quartieri che vi si affacciano, andando incontro -sul viale palmato- ai passanti. Passanti di ogni tipo. Il mondo intero praticamente. E alla felicità.
Sì, la si poteva respirare a pieni polmoni, la felicità, c’erano solo sorrisi, solo umori divertiti, e poi la salsedine, le sculture di sabbia e, in lontananza, quel promiscuo spessore dell’aria, ondulato-ubriaco, innescato dal contatto tra il caldo e l’asfalto.
Aria sensibile al solletico della sabbia. Mare sopraffatto da un elemento clandestino, la pluralità degli individui, che si erano conquistati la scena relegando l’acquatica presenza a parte marginale, quasi inosservata.
Barcellona ha tante vesti, quella più singolare è che da centro città si trasforma in luogo di mare, guazzabuglio di gente in costume e corpi ambrati; quella più carismatica, e se vogliamo anche più scontata, è che dal Parque Guell alle Tapas alla Desigual ogni contributo ci racconta l’arte di Picasso.
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Ciò che forse non ci si aspetta è la Barcellona, trecentosessanta gradi, vista da una funicolare. Ero in alto, sul punto più alto del Montjuic. E sotto correva tutto, fino al mare, fino a questa inarrivabile terra blu e al suo circo di imbarcazioni, grandi e piccole, e alle spiagge con i bagnanti, prima così vicini adesso disegni di una terra che dall’alto tramutano.
Ho pensato a l’onnipotenza, a come, volare di per sé, è una di quelle sensazioni che non appartiene agli uomini ma solo agli uccelli. E non è proprio la stessa cosa che prendere un aereo. Sei a stretto contatto con l’aria che ti scivola tra le dita mentre i piedi non toccano più le orme.
Ho pensato a quanto innaturale sia volare, visto che non ci hanno dato le ali, e a quanto invece ci appartiene nella testa, quante immagini produciamo in pochi secondi, quanti i pensieri che sprigioniamo. Lo stesso succede quando ho bisogno di scattare una foto, è un volo pindarico, è una di quelle planate incredibili che non hanno confini. Forse perché, nel pensarmi un gabbiano, i confini non hanno più importanza.
Seduta nel vuoto di quella mattinata ho lasciato che il porto, dall’alto, mi raccontasse la sua storia di colori, e che la stessa acqua vista prima, sfondo solitario di un’altra scena, diventasse predominante, un viaggio nel viaggio. Scendendo di lì, a parte le gambe che sembravano scollegate dal corpo, tutto il resto di me riprendeva possesso di una banchina, di un passante, di una palma e poi de la Ramblas, che ho ripercorsa assorbendo altre immagini a rallentatore. Fino al Mercato della Bouqueria, fino a un bicchiere colorato, pieno di frutta. Come se la pace fosse custodita in un semplice bicchiere di frutta.
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