Non si scende subito al Porto di Essaouira uscendo dal giro di colori della Medina.
Qualche gatto mi guarda indagatorio, qualcun altro mi segue, per un attimo penso di essermi persa. Invece mi ritrovo a salire La Skala de la Ville che mi sbalza verso il mare. Un mare cenere, le onde sferzanti. Eppure l’impatto del vento non si impossessa della costa.
C’è come un forte impeto, molesto, della schiuma che si forma nel rifrangersi dell’acqua, addosso alle rocce, come se volesse vestirle di bianco e portarsele via.
Un mastodontico bastione e i cannoni d’ottone, dritti verso il mare, contrastano anche le forze della natura oltre ad aver contrastato i demoni del passato. Si impongono massicci, autoritari.
E io vacillo, respiro la salsedine, guardo due pescatori, che combattono l’ostilità delle acque, a volte le dominano, a volte ne restano travolti.
Mi incammino verso il Porto lasciandomi dietro un pezzetto di cuore e anche di tempesta.
Il tratto del porto è disteso, l’inquietudine del mare se n’è andata, se pure il vento persiste costante, motivo che ha ribattezzato Essaouira città africana del vento, a dispetto invece di una luce aura che veste di bianco la città e la disegna armonica.
Una luce dentro la quale si muovono i corpi, il dialogare marocchino, lo stridere dei gabbiani che si alzano e si abbassano dalle rocce. C’è qualcosa che mi fa stare con il fiato sospeso in questo posto. Il lungomare mi sorprende, resto come sonnambula dentro un sogno.
I pescatori sono all’opera, puliscono il pesce sulle rocce e poi con gusto lo gettano nei secchi; le barche, di un blu elettrico, tutte uguali, tutte ondulatorie, riposano nella più perfetta delle cornici; e un gruppo di ragazzi, in preda alla competizione, si sfida in una gara di tuffi, tra le reti dei pescatori, e le fortificazioni del porto.
Se potessi scegliere un posto in cui rimanere, scegliere questo. Essaouira.
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