Roma vista dall’alto: il Tevere a separare due città diverse, due diverse concezioni del mondo.
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A volte capita che il passato remoto ti riempia la mente mentre stai guardando una immagine che vorrebbe parlarti d’altro.
Questo succede perché la Fotografia in sé racconta sempre un mucchio di storie, anche storie diverse da quelle che sono direttamente rappresentate, anche diverse da quelle che aveva in mente chi la foto ha realizzato.
La Fotografia è sempre interattiva, crea un legame forte perché solo apparentemente mostra un frammento di realtà (già il fatto che sia un frammento selezionato da qualcuno ne fa un prodotto dell’immaginazione), la verità è che fruga negli angoli della mente di chi la guarda e fa riemergere, all’improvviso, cose sepolte da altre parti e venute a galla per via di quel magico e sconosciuto attributo dell’uomo che chiamiamo coscienza. L’immagine di cui vi parlo è una Roma vista dall’alto che ho avuto di fronte a me per un paio d’ore mentre assistevo alla presentazione di un bel libro sulla storia dell’urbanistica della città presentato presso la facoltà di architettura di Roma 3 al rione Monti.
Il libro porta come sottotitolo Dinamiche di trasformazione e si riferisce a tre dei maggiori monumenti della nostra città: Il Mausoleo d’Augusto, il Pantheon, Piazza Navona. L’immagine era stata scelta dagli autori come icona di quella giornata in cui più lavori del genere erano messi a confronto. Quello che mi è venuto in mente è solo un’astrazione fatta mentre le autrici del libro mettevano l’evidenza una ricerca riferita alla pratica della architettura cittadina; come se, commentando il libro, stessero facendo uno zoom nella immagine che avevo davanti e fossero finite nel mezzo della vita vera con la macchina del tempo della ricerca, entrando di forza in una dinamica che la città tendeva a custodire nascosta.
Non sono architetto e nemmeno addetto ai lavori, e l’occhio è finito immediatamente a soppesare la netta differenza che esiste tra la città prima romana, poi rinascimentale e barocca, costruita sulle fondamenta della precedente, la vedete in basso a destra nella foto e quella successiva, in alto nella foto, squadrata come le strade di New York, ordinata e razionale, il contrario di quella affastellata a mettere insieme un popolo che non voleva uscire dal mucchio, disordinata, apparentemente senza regole, impura.
In mezzo: il Tevere, un dio senza tempo che separa l’una dall’altra, una fascia continua e sinuosa che sembra voler far stare appartate due diverse concezioni del mondo. Sembra, questa è l’idea che avevo seduto di fronte all’immagine, la visione che Aristotele aveva del cielo e della terra. Puro il primo, sede della perfezione e perciò compatibile con le idee e la sapienza, approssimata ed impura la seconda, senza regole e immune alle norme.
Ci sono pagine in cui il grande filosofo lamenta come sia impossibile misurare l’altezza di un cane: non ce ne sono due uguali su questa terra, possiamo dire che un cane è più piccolo di un cavallo, ma niente altro perché la terra è la terra e funziona così.
Questa approssimazione e quest’assenza di regole appare guardando dall’alto il rione Regola, Campo Marzio, Monti, segmenti contorti che ne incrociano altri perfettamente curvi ed altri ancora dritti ma brevi, un caos apparente che però fonda la sua origine su una stratificazione di storia unica al mondo. Il mondo sublunare secondo Aristotele cui fa specchio, come in una cosmologia ripresa dal de coelo il quartiere Prati, perfetto e regolare, normato da un dio che l’ha costruito a sua immagine e somiglianza.
Se nella Grecia antica non è mai nata una Fisica come la intendiamo adesso, pur avendo a disposizione un formalismo matematico di tutto rispetto che utilizzavano per tenere traccia e previsione degli eventi astronomici, è solo perché nel mondo del pressappoco, come lo chiamerà Alexandre Koyré contrapposto all’universo della precisione al di là del fiume, fare una misura, osservare, non aveva alcun senso nella convinzione che mai sarebbe potuta derivarne una idea, una catarsi, una teoria. L’idea che le cose del cielo fossero diverse da quelle della terra è andata avanti per millenni fino a che, tra l’agosto del 1609 ed il marzo del 1610 un altro grande del pensiero umano, Galileo Galilei cominciò ad osservare la luna avvicinandosi come mai nessuno prima aveva potuto fare. Non potè scattare nessuna fotografia, mancavano ancora un paio di secoli, ma non mancò di prendere i suoi appunti in immagine disegnando l’acquerello che vi mostro.
Immaginatelo come fosse il controcampo della foto di prima, una dall’alto verso Roma ed una dal basso verso la luna. L’acquerello riporta quello che Galileo ha visto, ma quello che ha visto, passato al setaccio del suo metodo di analisi, ha sconvolto lui e il mondo intero. La luna è ruvida al contrario di quel che si credeva ed è piena di puntini bianchi nella zona scura e di puntini scuri nella zona chiara, una luna mai vista prima, una eccezione nell’universo della precisione, una pausa nell’iperuranio delle idee.
Ma Galileo va oltre, fa di quella immagine l’origine di una serie di pensieri concatenati, fa seguire alla prova dei sensi una certa dimostrazione come la chiamava. Nelle valli alpine dove viveva in quel tempo, al mattino presto, quando la luce è radente e carezza le cime delle montagne, queste, appaiono assolate prima delle valli che ancora dormono il buio della notte, se potessimo guardare la terra dall’alto, allora ci apparirebbe con dei puntini bianchi nelle zone scure come la luna. Quelle della terra le chiamiamo montagne e ci siamo tanto abituati che non ci spaventano più. Anche la luna ha le montagne e non è certo una sfera pura di cristallo come la si credeva prima. La luna è come la terra. Allora? Allora le leggi e la matematica che era stata concepita per il cielo può finire a spiegare anche i fenomeni sulla terra in una sola spiegazione comune. Così il mondo del pressappoco sposa l’universo della precisione e nasce la fisica così come la conosciamo, nasce un altro modo di ragionare, nasce la scienza come metodo.
Questo ho visto nella foto di Roma, un mondo pre galileiano su una sponda e quello della modernità dall’altra, la foto di una città che rappresenta e racconta uno dei passi più importanti della nostra civiltà dividendo in due il processo del pensiero moderno.
In mezzo: il Tevere. Sornione e implacabile testimone di tutto questo, conserva e racconta, custodisce e cancella, si inoltra, sinuoso, tra le pieghe dell’umano pensare. Dalle navi di Enea che ha sottratto alla furia del mare al cesto con i due gemellini che ha cullato come balia amorosa fino a quest’ultima immagine in cui si presenta ad un ignaro curioso convenuto alla presentazione di un libro come colui che divide in due la storia della filosofia, colui che rammenta di una rottura che ha dato origine ad una nuova civiltà.
Ma il Tevere sa bene che il pensiero, anche di fronte a fratture epistemiche come quella che vi ho raccontato, vive solo grazie ai ponti, le idee cambiano solo perché il passato transita da una parte all’altra portandosi appresso i colori gli odori che ogni nuova scoperta mette davanti all’uomo e che non esisterebbe senza confronto. Ponti che collegano punti di vista diversi, ponti che sono il segno uguale di una delle equazioni di fisica studiate al liceo. Panta rhei avrebbero detto i seguaci di Eracrlito, tutto scorre e si trasforma, le idee, la scienza, i rioni di Roma.
Tutto scorre? Bella scoperta sembra dire il Tevere, c’hanno pure pensato e ce so diventati famosi. Io scorro da molto prima de loro….…Aò, nun se po’ fa na cosa che te copino subito!
I libri: Barbara Buonomo, Fabiana Cesarano, Maria Cristina Lapenna Mausoleo d’Augusto, Pantheon, Piazza Navona, Dinamiche di trasformazione De Luca Editori d’Arte.
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