Uganda viaggio nel il paese più giovane del mondo, l’età media della popolazione è di appena 14,8 anni (contro i 42,3 di quella italiana). Continua il viaggio…
Dopo la fantastica esperienza del gorilla trekking, la mattina seguente, di buon’ora (le 07.00), siamo partiti per Ishahsa, la strada è stata un calvario ed una rivelazione. 150 Km mai asfaltati, tratti da Camel Trophy ed altri peggiori. In tutto abbiamo impiegato 7 ore, contando, però, una sosta forzata di circa un’ora dovuta ad un mezzo rimasto impantanato di traverso in mezzo ad un tornante di montagna che ha completamente bloccato il traffico in entrambe le direzioni. Un nuvolo di uomini usciti dalle case e dalle capanne del vicino villaggio si è impegnato a fondo con attrezzi di fortuna per permettere al mezzo pesante di riconquistare l’aderenza necessaria ad uscire dal fango.
Alla fine sono riusciti soltanto a farlo spostare a sufficienza dal centro del sentiero per permettere agli altri di passare. E, così, con i due camion giunti prima di noi, uno dietro ed una jeep come la nostra (vale a dire tutti i mezzi giunti sin lì in un’ora) abbiamo abbandonato il mezzo alle sue disgrazie e siamo ripartiti.
Lungo la strada abbiamo visto un pezzo dell’Uganda più rurale: villaggi di campagna allo stato primordiale, dove non giunge elettricità, né acqua, né nient’altro. Migliaia di uomini che sospingono biciclette cariche all’inverosimile sfruttandone le ruote e di donne che lavorano i campi chine nella tipica postura a gambe tese; e, poi, un numero straripante di bambini, per lo più addetti all’approvvigionamento idrico, trascinanti enormi ghirbe di plastica gialla pesanti d’acqua attinta alla fonte più vicina.
L’Uganda è il paese più giovane del mondo; l’età media della popolazione è di appena 14,8 anni (contro i 42,3 di quella italiana che, insieme al Giappone, è il paese più vecchio) ed è purtroppo inevitabile che anche i bambini siano parte del ciclo del lavoro. David ci ha spiegato che, in questi villaggi, le donne debbono lavorare la terra e venderne i frutti, preoccupandosi di portare il denaro a casa. Gli uomini, invece, sono addetti ai trasporti di cose pesanti ed a tutti i lavori duri, essi, inoltre, di tanto in tanto, si recano nei paesi più vicini (affrontando una sorta di viaggio) per comprare abiti e quant’altro occorra per tutti.
Ba si è stupita, quasi indignata, per questa divisione dei compiti da lei giudicata maschilista. A me è sembrata solo una convenzione, come lo è (lo è stata?) la nostra. Forse non si sarebbe stupita se fossero stati gli uomini a dover lavorare i campi per portare denari a casa, semplicemente perchè questo sarebbe stato maggiormente conforme alla convenzione che ci è stata tramandata.
Una donna anziana, in particolare, mi ha colpito: in un tratto di strada in salita, lontano da ogni capanna ed in direzione contraria al villaggio più vicino, questa vecchia portava, appoggiato su una spalla, un lungo legno cui alla fine era appallottolata della paglia fumante: David ci ha spiegato che stava portando a casa… il fuoco!
A volte mio padre dice: “noi eravamo così 50 o 60 anni fa…”. Ma quando eravamo così noi? I romani costruivano grandi città con acquedotti e strade di comunicazione pavimentate 2000 anni fa. Qui, per percorrere 150 km con un’auto fuoristrada (una normale non potrebbe farne neanche uno) occorrono 7 ore. Perchè è tutto fermo? Come è possibile che vi siano luoghi in cui non ci siano nemmeno i fiammiferi a liberare gli uomini dalla fatica di procurarsi il fuoco?
Lo sforzo quotidiano di questa gente è tutto teso a soddisfare i bisogni primari più elementari (acqua, fuoco, cibo..), occupando, giornalmente ed interamente, la loro vita. Alcuni, forse, potrebbero dire che questo ci riporta alle radici della nostra essenza, alle cose importanti, alla semplicità della vita, ai ritmi naturali. Niente di più falso. Questi uomini, fermi ai primi gradini del progresso, vivono poco e male; i bambini lavorano sin dall’infanzia e la natura li seleziona duramente; per lo più sono analfabeti e la loro ignoranza è pressoché totale se paragonata ai saperi conquistati.
Per un momento quest’Africa mi appare senza storia, come se prima del colonialismo fosse stata ferma all’età primitiva, priva di evoluzione per millenni. Ma è possibile? Certo no, ma la guida (inglese) racconta la storia dell’Uganda (e del Rwanda) introducendola con un breve capitoletto di poche righe titolato “prima del colonialismo”…
Ad Ishasha abbiamo visto tre leoni sugli alberi, pare siano una razza molto rara: siamo stati fortunati. Quindi abbiamo fatto il nostro primo game-drive nel parco Queen Elizabeth riuscendo a vedere mandrie sterminate di bufali, impala ugandesi ed altri animali simili a questi ultimi, ma più belli e colorati, chiamati “topi”.
La cosa che più mi ha affascinato, però, è stato trovarmi a pochi metri dal confine con il Congo che si snoda dall’altra parte della sponda di un fiumiciattolo facilmente attraversabile: un vero confine immaginario tracciato su una natura completamente omogenea, ignara ed estranea alle vicende umane. Eppure pochi chilometri prima avevamo visto, su una larga piana, un accampamento di profughi dalla zona del North Kiwu allestito dalle forze ONU: una miriade di disperati senza più terra e confini propri.
Dopo esserci rimessi in marcia, alle ore 19.00 siamo arrivati al Mweya Hostel che, alla modica cifra di $. 40 a notte, segna il punto più basso del nostro peregrinare in giro per il mondo: bagno condiviso e stanze degne dei soldati di Sparta. D’altra parte nella penisola di Mweya l’unica alternativa è il Mweya Lodge, lusso estremo a $. 280 a notte: fate il vostro gioco, prego.
Comunque, la sistemazione non si è poi rivelata così male, perché, oltre all’ottima cena (abbiamo scoperto che i fagioli ugandesi sono squisiti), durante la notte siamo stati allietati da una visita incredibile sotto la nostra finestra: un ippopotamo enorme che brucava rumorosamente l’erba!
CONTINUA…
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