Tappezzeria Marocchina - PhotoCredit: Emanuela Gizzi
Un castello fatto dalla sabbia, cantava Jimmy Hendrix ispirato proprio dai dintorni di Essaouira, una di quelle mete, diventata stazione commerciale non a caso.
Eppure nonostante le influenze fenicie e il fenomeno turistico in forte crescita, nella Medina si respira il Marocco, sciolto nei colori porpora dei tappeti, riformulato nell’aroma delle spezie e nel legno di tuia, rintracciabile ovunque, sia sulle teste delle donne che si avvolgono nell’haik , il velo bianco tradizionale, sia nell’intricato gioco di stradine che si incrociano all’interno.
I vicoli sono come una cipolla. Basta addentrarsi per scoprire sempre più cose di Essaouira. Gatti acciambellati in ceste di vimini o sornioni sui muretti, piccole piazze, teatri all’aperto di opere artigianali e di ricca gastronomia, che accolgono in modo famelico i visitatori; uomini che ramazzano i marciapiedi e mi sorridono e donne sedute in terra che sgranano montagne di legumi; il profumoso alito di tajine speziati che si mescola all’aria e all’arte.
Ovunque io giri lo sguardo, l’amalgama artistico e quello sociale mi contagiano. C’è semplicità ma c’è francesismo. Un qualcosa di autentico è insito in ogni oggetto artigianale e in ogni donna o gatto che incrocio. Mi sento appartenere al luogo.
L’ospitalità che invade i vicoli non ha bisogno di essere esternata con un gesto o una parola, è lì, frutto di un passato evidentemente costruito verso quella direzione.
Si ripetono lungo i vicoli delle litanie, o come vengono definiti, canti gnaoua, accompagnate dal suono di tamburi, bassi a tre corde e nacchere metalliche che sono espressione di come sacro e profano, elementi sub-sahariani e influenze di altri luoghi si fondano relazionandosi tra loro.
Un’anziana ingobbita mi passa accanto, la guardo fino a quando la sua figura fragile non scompare in fondo alla piazza Moulay Hassan. Mi vengono in mente i ritmi di Pat Metheny.
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