Si può partire da Trilussa per raccontare la romanità?
Su, da la loggia, una camicia bianca
s’abbotta d’aria e,
ne l’abbottamento
arza le braccia ar celo e le spalanca.
Pare che dica: — Tutt’er monno è mio! —
Diciamo che il linguaggio, di per sé, racconta il clamore dell’accento, l’orgoglio che si eleva, e la spavalderia pittoresca che prende spunto dai vicoli popolari. Ma la romanità non sta solo nell’inflessione dialettale.
È stata cantata in tanti stornelli, Roma, e quella teatralità insita nel dialetto si è trasformata in poesia. Poesia pura. Che poi tanti autori, registi, attori hanno rubato e interpretato a modo proprio, con la propria attitudine romana, il parlare romanesco e le sue declinazioni.
E allora, da La Società de i Magnaccioni, che sembrava voler sfornare solo ragazzotti rustici in balia del vino de’ I Castelli, il noantrismo è stato divulgato da quelli che la Lupa ce l’hanno tatuata sul petto.
Giorgio Onorato, con Addio Roma mia Bella, cuce la città in un baco, pensandola perduta; così Claudio Villa, con Arrivederci Roma, geloso -quasi- di quei turisti che a Fontana di Trevi possono lanciare una monetina e desiderare di farvi ritorno.
Di vena romantica è stato Alvaro Amici. Nella serenata a una Ciumachella de’ Trastevere, una ragazza di cui era innamorato, ha lasciato inciso nei cuori della gente l’atmosfera calda dei rioni. Un po’ come Nino Manfredi che con Roma nun fa la stupida stasera, invoca il potere della città, i grilli e il ponentino, per far capitolare una donna.
Il Marchese del Grillo direbbe “Io so’ io e voi non siete un cazzo”. E, in effetti, i protagonisti di un tempo come Alberto Sordi, la Sora Lella, Aldo Fabrizi, Anna Magnani, Monica Vitti, erano personaggi veraci, l’incarnazione di quelli che masticavano la coda alla vaccinara. La rappresentazione della vera romanità.
Lo stesso si può dire citando alcuni film, impastati con luoghi e monumenti capitolini. Film, del calibro di Accattone e Mamma Roma, dove, la sensibilità pittorica di Pasolini, cerca -nel primo- di far esplodere l’architettura antica senza riuscirci troppo; e -nel secondo- di fermare il tempo, laddove il passo degli uomini e, quindi, della storia, si era fermato.
E film come Roma Città Aperta di Rossellini che rappresenta il manifesto post-bellico di una città appena sottratta alla guerra; o La Dolce Vita di Fellini che, invece, entra nel vivo degli scandali mondani romani con un’impronta decisiva sulla società, in pieno boom economico e fotografico.
Un’impronta molto simile alla, più recente, Grande Bellezza di Sorrentino che, pure, pittura uno sfondo monumentale e antico senza precedenti, dove Roma diventa reale ma fantastica, un vero inno all’arte.
Il popolo romano ne ha consumati di sampietrini. Quell’Appia Antica ne ha attraversata di Storia!
E ecco che si modificano gli stili, la purezza di un tempo, forse, la città tramuta, ma i muri trasudano di romanità.
Eros Ramazzotti ci mette del suo con Adesso tu, uno di quegli spaccati popolari da cui un giovane cerca di emergere perché tra sogni e pugni presi, preferisce i primi.
Ma il panorama è ampio. Luca Barbarossa guarda la città da un altro punto di vista, componendo una nuova poesia romanza, che porta il titolo di una via, famosa per le botteghe degli artisti, Via Margutta. Una serenata a una donna che Barbarossa trasforma in un dipinto notturno della città e in un cambiamento verso qualcosa di bello. Una romanità che soggióga gli animi.
Al contrario Mannarino, con il Bar della Rabbia, che vorrebbe andare come il vento, dove gli pare, si ritrova, invece, nella stessa situazione di sempre. E allora brinda a quell’unico che ce l’ha fatta e che era pure raccomandato. Uno humor romano che odora di disincanto, rassegnazione.
Comunque, fatto è, che mentre in ambito musicale, Mannarino, ma anche Daniele Silvestri, cantano una stanchezza sociale con disinvolta freddezza; in ambito televisivo-cinematografico, lo stesso stile, cinico-sornione, viene portato in scena da quei geniacci di Gigi Proietti, Valerio Mastrandrea e Marco Giallini. Tre attori che vestono quasi sempre ruoli dalla disinvolta sofferenza, sottolineati da una spessa riga di superficialità, che però fa ridere. Tanto per ribadire il concetto del Marchese che “quanno se scherza, bisogna èsse seri!”.
Ma a Roma si può anche ridere e basta. Maurizio Battista, nei suoi show, fa ingozzare il pubblico di battute al dente, Enrico Montesano e Carlo Verdone mangiano e bevono in romano, e al pubblico danno in pasto quel che hanno mangiato e bevuto. E sono quelli che a un derby non mancherebbero mai.
E, visto che siamo giunti allo stadio, è doveroso nominare tra i simboli, forse più diffusi, della romanità, l’ex capitano giallorosso, Francesco Totti, che non scucchiaia più in campo, ma ha conquistato il posto più alto in classifica ottenendo il titolo di Ottavo Re di Roma. Probabilmente, seguito da Antonello Venditti con il suo Grazie Roma, con Roma Capoccia e con Roma Roma Roma, tre inni indimenticabili e mai tramontati nel cuore della gente.
La si potrebbe chiudere qui, avendo elencato tanti nomi che hanno raccontato l’essere romani, tuttavia tornerò a citare alcune storie, alcuni fatti. Per esempio di Pasquino e la leggenda delle statue parlanti o dei Gatti di largo di Torre Argentina.
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